Osservazioni sulle decorazioni dell’ala trecentesca di Palazzo Schifanoia
Chi si approccia oggi allo studio di Palazzo Schifanoia si trova, in primo luogo, sopraffatto dalla densità della bibliografia scientifica dedicata alla Delizia che, in particolare dal tardo Ottocento, si è infittita sempre di più. Questo, da una parte, rende giustizia ad uno dei più interessanti casi-studio del Rinascimento italiano, parimenti però lascia non poco sconfortati gli studiosi che desiderano approfondire la conoscenza dell’edificio e delle sue decorazioni.
Una volta però affrontato questo primo scoglio, ci si rende conto di come la maggior parte dei contributi scientifici dedicati al Palazzo siano in realtà relativi al Ciclo dei Mesi nel Salone del primo piano: l’esempio più noto, conosciuto e studiato di pittura profana del Quattrocento. Un altro argomento ricco di riferimenti bibliografici è la storia del Palazzo stesso: fin dal 1898, anno in cui esso divenne sede museale, più volte studiosi, architetti e archeologi si sono interrogati sulle fasi costruttive dell’edificio. Al di là di questi due aspetti, tuttavia, esistono ancora ambienti della sontuosa residenza estense che gli studi non hanno ancora affrontato approfonditamente: uno di questi è la decorazione pittorica della cosiddetta “ala trecentesca”, che sarà oggetto del presente contributo[1].
La cosiddetta “ala trecentesca”
Oggi il Palazzo Schifanoia è costituito da un lungo edificio, composto da più corpi di fabbrica e risultato di una serie di cantieri architettonici, la gran parte dei quali si susseguì nel corso del suo primo secolo di vita. Senza avere la pretesa di riassumere qui le già note informazioni storiche relative alla Delizia[2], vorrei soffermarmi solamente sulla primissima fase costruttiva dell’edificio, che dal punto di vista della documentazione disponibile rappresenta il periodo più oscuro della sua storia (fig. 1).

Fig. 1 – Palazzo Schifanoia, in primo piano l’attuale ala “albertiana”
Le fonti, fin dal Quattrocento, ricordano che la costruzione di Schifanoia avvenne per volontà di Alberto V d’Este (1347-1393) tra il 1385 e il 1391. Si tratta del terzo palazzo fatto costruire dal marchese, che nel 1391 fece innalzare anche il Palazzo Paradiso e il Palazzo di Belfiore[3]. Con questi due, Schifanoia condivide le stesse difficoltà archivistiche: non si conoscono infatti documenti coevi alle prime fasi di costruzione. Occorre attendere un secolo per avere notizie relative alla sua nascita. È Ugo Caleffini (1439-1503)[4] il primo a scrivere che il Palazzo venne costruito nel 1385, una data però non confermata dalle fonti successive, quattro e cinquecentesche, che riportano invece il 1391 come anno di costruzione. Si veda a tal proposito un’anonima e interessante Cronica conservata presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, con segnatura ms. Classe I 67[5], che ai fogli 68v e 69r riporta:
Come el marchese Alberto de Este signore di Ferrara fece cominciare tri magni palazzi in la città di Ferrara. De dito anno del mese di magio habiano el marchese Alberto molti lochi vacui in la città di Ferrara et fora de Ferrara se deliberò di volere far fare tri magni palazi. Et così di questo mese cominciò a fari cavari in uno loco quasi appresso alla muraglia in uno loco dito la Formegnana et li comenciò uno magno palazo et volse che el fosse chiamato Schivenoio et di questo tipo medesimo anchora ne fece comintiare uno altro a presso al Sarafino[6] et volse che fusse chiamato Paradiso et similemente in questo medesimo tipo anchora ne fece cominciare uno altro di fora alla porta del Lione tra el borgo del Lione[7] et el borgo di San Biagio et volle che el fusse chiamato Belfiore li quali furono tri magni palazi et in questo medesimo anno furono finiti[8].
Questa informazione è stata poi riportata anche da Mario Equicola (1470 ca.-1525) nei suoi Annali: «Di quest’anno [1391] furono fatti li Statuti di Fer[rara]. Il Palazzo de Schivonoio fu edificato da mar[chese] Alberto, e fu edificato a terreno, si figurò che costasse 30.000 ducati. Il duca Borso lo mise a solaro»[9]. Da Equicola in poi, la critica moderna ha sempre prestato indubbia fiducia a quest’ultima data[10], ma quando ci si è accorti della nota lasciata da Ugo Caleffini, gli studiosi hanno iniziato ad interrogarsi sull’interpretazione e sull’affidabilità delle due datazioni. Gualtiero Medri[11] per primo, recuperando la notizia di Caleffini, provò a risolvere l’impasse ipotizzando una doppia fase costruttiva: un primo cantiere nel 1385, seguito da un ampliamento nel 1391. Una ricostruzione che è stata poi accettata e seguita dal resto degli studiosi[12]. Al netto delle varie proposte avanzate, sembra tuttavia più corretto considerare i due estremi cronologici con una certa prudenza[13]: è possibile che il 1385 e il 1391 indichino in realtà due fasi del medesimo cantiere e la seconda data ne certifichi la conclusione.
Sarebbe arduo immaginare che nel giro di pochi mesi i cantieri architettonici di Belfiore, Schifanoia e Paradiso siano stati iniziati e portati a termine. Sembra comunque plausibile che i lavori, di questo e degli altri palazzi, siano giunti a termine attorno ai primi anni Novanta del Trecento.
Come Schifanoia, anche Palazzo Paradiso porta con sé tracce della sua prima decorazione[14], e da fonti di fine Quattrocento conosciamo parte della decorazione di Palazzo di Belfiore[15]: in questi due casi si è sicuri che alcuni cicli pittorici vennero completati entro il 1393, anno di morte del marchese, mentre ci mancano datazioni certe per quanto riguarda il ciclo di Schifanoia.
Così come la cronologia, anche la facies dell’edificio trecentesco è stata oggetto di diverse discussioni. Se Caleffini ed Equicola descrivono la fabbrica albertiana come una struttura “terrena”, cioè disposta lungo un solo piano (e così l’edificio è descritto anche nel 1437[16]), non è chiaro se tale corpo di fabbrica fosse conchiuso nell’edificio oggi chiamato “ala trecentesca” o se questo si estendesse anche a est, sezione che sarebbe stata poi sopraelevata da Borso d’Este (1413-1471). La seconda ipotesi sembra la più probabile, specie per la modesta grandezza dell’attuale ala trecentesca: una struttura non di certo descrivibile come ricca e fastosa dimora, come venne definita nel 1437.
Relativamente alla funzione e all’uso del Palazzo, per i primi anni di governo di Niccolò III (1383-1441) non abbiamo notizie: per le cronologie più antiche infatti non si conoscono documenti. Finora la prima fonte nota alla critica è il celebre inventario del 1436, ma le ricerche condotte da chi scrive[17] hanno consentito la riscoperta di due documenti inediti datati 1410 e 1414.
Si tratta di due atti notarili rogati in ambienti del Palazzo Schifanoia: il primo è un’imbreviatura del notaio Petronio da Bologna, redatta presso la “loggia inferiore”[18]. Il secondo, del 1414, è stato redatto dal medesimo notaio presso la “guardacamera [della] camera a damigellabus”[19], che si riferisce ad un ambiente descritto poi anche nel 1436 come “la chamara da le donzele et cimerj”. Informazioni che certamente non rivoluzionano la conoscenza del primo Palazzo, ma che costituiscono comunque i più antichi documenti noti relativi all’edificio e alla sua strutturazione interna.
La loggia citata nell’atto del 1410 viene descritta anche nell’inventario di corte del 1436. Secondo gli studi di Silvano Ghironi e di Flavio Baroni, nonché quelli di Carla Di Francesco, tale loggia doveva essere collocata lungo il lato settentrionale dell’ala trecentesca: un lungo porticato che a sud si innestava nell’edificio e che a nord si affacciava sul giardino[20]. Nella ricostruzione assonometrica pubblicata da Di Francesco, basata sulla proposta di Ghironi-Baroni, si nota come in origine l’edificio fosse dotato di una pianta a L, il cui lato corto era collocato alla conclusione dell’attuale corpo di fabbrica (fig. 2)[21].

Fig. 2 – Ricostruzione assonometrica del Palazzo alla fine del XV secolo (da Di Francesco, Schifanoia cit., p. 61)
Di tale struttura, che verso nord sporgeva anche oltre la loggia, e che insieme a questa andò distrutta, se la guardiamo dall’alto si può riconoscere il presunto sedimen, un’area oggi di proprietà privata. Ciononostante, ne esiste un’ipotetica ricostruzione grafica pubblicata da Ghironi-Baroni, ad oggi non più completamente affidabile[22] ma comunque indicativa (fig. 3).

Fig. 3 – Rielaborazione grafica (a cura dell’autore) della pianta originaria dell’edificio così come era stata prospettata da Ghironi e Baroni (in Note cit., p.124). In nero, le strutture oggi rimaste; in grigio, la proposta dei sopracitati studiosi di collocazione delle strutture perdute in base a rapporti di proporzione (il corpo occidentale e la loggia)
Bisogna giungere all’inventario del 1436 per avere una prima “immagine” del Palazzo e delle sue pertinenze[23]. I notai che redigono il documento e conducono il sopralluogo a partire dal 1° febbraio di quell’anno scrivono:
In Schivinoio in la chamera del Segnore de cho de la loza lunga soto custodia de Piero et Martino de Schaveto fradelj presente el dicto Martino[24] […]
In la camara da lj alifanti[25] […]
In la chamara da le donzele et cimerj[26][…]
In la chamara de san Zorzo[27][…]
Soto la loza lunga[28] […]
In la chamara da le pigne[29] […]
In la chamara da le rode[30] […]
Al pozo[31] […].
Al pari degli altri edifici oggetto dell’inventariazione, anche a Schifanoia le stanze del complesso sembrano essere indicate col nome della relativa decorazione. In questo caso, però, il rapporto tra il documento e gli ornamenti rimasti è alquanto complesso, tanto da sembrare che nell’inventario si parli di un edificio diverso rispetto a quello a noi sopravvissuto: le stanze decorate che conosciamo non presentano all’apparenza nessuna relazione con i temi citati nell’inventario. D’altra parte, il documento non sembra riferirsi a nessuna delle sale oggi sopravvissute. L’edificio descritto è più grande dell’ala trecentesca attuale: se si esclude la porzione più occidentale, quella andata perduta, oltre agli ambienti a noi rimasti, esistevano quindi altre camere e anticamere che dovevano estendersi presumibilmente verso est. Il documento indica per ogni stanza un numero e una qualità di oggetti di poco conto e valore, un’immagine molto lontana dall’amena dimora, così come di lì a poco sarebbe stata descritta.
Una serie di indizi che quindi fanno pensare a come il documento in questione possa in realtà essere parziale e, più che per altri palazzi estensi, non completo e sufficientemente oggettivo ai nostri occhi. Se per Palazzo Paradiso, l’unico per cui abbiamo un confronto diretto, emergono già alcune perplessità sull’assenza di alcuni ambienti tra quelli descritti[32], per Palazzo Schifanoia tali incongruenze sono ancora maggiori. In questo senso andrebbe quindi reinterpretata la circostanza per cui nel 1436 non siano menzionate cucine: elemento che non è passato inosservato agli occhi della critica[33], ma che potrebbe risolversi semplicemente come una delle tante lacune descrittive che caratterizzano il documento.
Nel 1437 Niccolò III donò l’edificio di Schifanoia ad Alessandro Sforza (1409 – 1473)[34] , in un documento in cui il Palazzo è detto:
domos appellatas Schivanoglia cupatas et muratas cum lodia pulchra et ampla et com curtili ac cum broilo circumque murato positas et situatas in civitate Ferrariae in contrada San Vitalis iuxta suos quoscumque confines cum omnibus edificiis atque rebus ad eas quamvis modo spectantibus et pertinentibus. Que domus sicut gemma in anulo circundata nitent. Ita amoenitate, delectatione, splendore et situ inter citeras pulchras magnificas domos[35].
Una descrizione magniloquente e forse eccessivamente pomposa, che si collega bene però al tenore del documento in cui lo Sforza è parimenti descritto magnifico e sublime, e che certifica l’aspetto iniziale dell’edificio, una lunga struttura a piano unico. Dell’uso fatto della dimora da parte dello Sforza non abbiamo notizie: in occasione del Concilio dell’anno seguente, nel Palazzo venne ospitato Demetrio Paleologo despota di Morea (1407-1470)[36], ma null’altro ci è noto. Nel 1449 lo Sforza vendette l’edificio al vescovo modenese Jacopo della Torre (inizio XV sec.-1486) per solo 1.000 ducati[37], indicazione che stona col costo della costruzione dell’edificio stesso, che sia Caleffini sia Equicola indicano in 30.000 ducati[38]. Inoltre, alla luce della presenza delle imprese di Leonello (1407-1450) in una delle sale, viene il sospetto che nel corso degli anni Quaranta il marchese fosse riuscito a entrare in possesso di parte dell’edificio, promuovendone un rimaneggiato.
Col decennio seguente Schifanoia rientrò completamente sotto l’egida estense e Borso vi dedicò nuove attenzioni, trasformando l’edificio, forse già a partire dal 1458[39], nella celebre e ricca dimora che i più conoscono.
La decorazione pittorica
Come abbiamo visto, la porzione architettonica trecentesca di Palazzo Schifanoia sopravvissuta è una lunga e bassa struttura, esternamente priva di particolare pregio e interesse. Osservando la pianta dell’edificio, è possibile notare un’alternanza di ambienti ampi e stretti, che forse riflette la scansione di camere e anticamere così come si evince anche dall’inventario del 1436[40]. Sulle pareti delle sale che compongono questo corpo di fabbrica si trovano diverse tracce di intonaci dipinti, alcuni già noti dal primo Novecento, altri emersi coi lavori di restauro condotti da Di Francesco nel 1983[41]. In quell’occasione vennero realizzate alcune indagini stratigrafiche, che portarono alla luce l’originale pavimento in cocciopesto e fecero riemergere anche tracce di fondazione di edifici precedenti la struttura attuale.
Stanza delle bifore (Sala 1 e 9 del percorso museale)
Seguendo ora un percorso est-ovest, lo stesso sul quale è organizzato il nuovo Museo di Schifanoia, il primo ambiente che incontriamo è quello oggi chiamato “stanza delle bifore”, di cui rimane solo la decorazione posta in alto sulla parete orientale, in prossimità del fregio, visibile solo dal soppalco moderno e non dal piano terra. Tale parete è verticalmente tagliata a metà dall’andito della scala che conduce al piano superiore del Palazzo e al Salone dei Mesi: dell’originario complesso decorativo di questa parete rimangono solo due lacerti, in origine connessi. Quello di destra, a sud quindi dell’ingombro della scala, mostra in alto una parte di fregio, di cui si conservano alcuni elementi marmorei, e subito al di sotto sono ancora riconoscibili il profilo di una fortezza o di una torre merlata, alla cui sinistra appare un albero posto su un paesaggio roccioso (fig. 4).

Fig. 4 – Palazzo Schifanoia, ala “albertiana”, Stanza delle bifore, parete orientale, lato destro. 1385-1391.
A sinistra della scala si vede la continuazione del fregio prima descritto: una successione di cornici mistilinee, giocate sulla presentazione ritmata di un elemento circolare entro un quadrilobo (forse, guardando le altre sale, si può interpretare come un motivo in pietra lavorato a traforo, a imitazione di un rosone) affiancato da due bifore insolitamente poste orizzontalmente[42] e divergenti dal centro. Elemento, quest’ultimo, che ha dato il nome moderno all’ambiente. Come nella parete vicina, al di sotto del fregio si notano altri particolari “paesaggistici”: sull’ultimo piano di una torre, aperta tramite tre archi, una figura femminile si sporge verso l’esterno (fig. 5).

Fig. 5 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza delle bifore, parete orientale, lato sinistro, 1385-1391
Questa indossa un abito verde con decorazioni quadrifogliate, un cappuccio sbottonato e, sopra quest’ultimo, tracce di una corona (fig. 6). A destra di questa torre si intravede parte di un’altra struttura architettonica, scorciata verso il centro della parete. Al di sotto corre una serie di merli rettangolari, con feritoie per arco.

Fig. 6 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza delle bifore, parete orientale, lato sinistro, Figura femminile coronata affacciata da una torre (part.), 1385-1391
La decorazione continuava anche verso sinistra, dove ora, come allora, è presente l’angolo che collega alla parete nord, a testimonianza che le attuali pareti sono le medesime della struttura trecentesca e che non hanno subito modifiche nel corso dei secoli. Nell’ultimo metro di decorazione, però, sembra che il registro inferiore dell’affresco cambi (fig. 7). Se il fregio sommitale è il medesimo ed è continuativo, subito a sinistra del “riquadro” che racchiude la scena della figura muliebre con corona chiusa nella torre si intravede, in basso, la porzione di una cornice rossa con finto mosaico e, continuando verso sinistra, traccia di una decorazione che simula il marmo traforato. La presenza di questi lacerti permettono di ricostruire una parete decorata con una successione di riquadri narrativi alternati a motivi geometrici e marmorei.

Fig. 7 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza delle bifore, parete orientale, lato sinistro, part. del fregio e della decorazione a finti marmi traforati, 1385-1391
Stanza di Leonello d’Este (Sala 2 e 8 del percorso museale)
Dopo la prima grande sala, segue un ambiente più stretto, la cosiddetta “stanza di Leonello”. Qui la decorazione pittorica rimasta si ascrive a tre diverse fasi e, anche in questo caso, è localizzata solamente nella porzione più alta (fig. 8). La prima, la più antica, è costituita da una serie di pilastri che dovevano inquadrare delle nicchie ad arco a sesto acuto, a loro volta traforate con ampie bifore. Entro i riquadri, nei due spazi di risulta tra la nicchia e i pilastri, sono ricavate coppie di dischi traforati. Non è chiaro purtroppo se tali nicchie fossero in origine “abitate” da figure umane o se fossero vuote.

Fig. 8 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza di Leonello, parete occidentale con traccia delle tre fasi decorative: 1385-1391, 1441-1450, 1458-1470
La scansione dei pilastri-nicchie è arricchita da uno spiccato senso di tridimensionalità: i pilastri sostengono, tramite dei piccoli capitelli, un lungo architrave sul quale si imposta il fregio. Quest’ultimo risulta sporgente rispetto alle nicchie sottostanti, che sono incassate nella parete: un interessante gioco di piani spaziali che corrobora l’ipotesi per cui alla base di tali rientranze ci fossero rappresentate delle figure o degli oggetti significativi, come cimieri o elementi araldici. Il fregio è giocato sulla ripetizione di elementi grafici identici alla sala precedente: anche qui ritroviamo una scansione ritmica di dischi traforati, inseriti entro cornici polilobate, fiancheggiati da riquadri contenenti elementi vegetali o da coppie divergenti di bifore poste orizzontalmente (fig. 9). L’uso della bifora rovesciata come figura geometrica “riempitiva” e non architettonica è alquanto singolare, ma non è l’unico caso documentato nella pittura tardo-medievale.

Fig. 9 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza di Leonello, parete orientale, fregio tardo trecentesco (1385-1391) e decorazione del periodo di Leonello (1441-1450)
L’ambiente, così come gli altri di quest’ala, ricevette una prima sopraelevazione nel corso degli anni Quaranta del Quattrocento. Più in alto del fregio descritto è infatti visibile, su una stesura di intonaco molto fine, un’ulteriore fascia decorativa che presenta elementi vegetali e floreali posti entro canestre disposte orizzontalmente e divergenti dal centro, al pari delle bifore sopra menzionate. Focus di questa decorazione è il volto tripartito di un fanciullo, impresa della Prudenza di Leonello d’Este[43] (Fig. 10). Elemento che indica quindi un primo cantiere di metà Quattrocento, occorso in una cronologia però in cui gli Este non dovevano essere proprietari dell’edificio. Si potrebbe ipotizzare un cantiere condotto per volontà di Alessandro Sforza, ma non si vedono le ragioni per le quali il condottiero avrebbe voluto presentare isolata un’impresa del marchese, né sembra che questi ebbe realmente il tempo di poter soggiornare a lungo nel Palazzo.

Fig. 10 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza di Leonello, fregio del periodo di Leonello d’Este con ripetizione dell’impresa della Prudenza (1441-1450)
Al pari delle vicine stanze, con gli anni Cinquanta e Sessanta del XV secolo l’edificio ricevette ulteriori attenzioni dal nuovo signore della città, il duca Borso. Questi provvide a sopraelevare ulteriormente gli ambienti, nel corso di un cantiere più vasto che potrebbe essersi svolto in concomitanza con i lavori condotti nell’ala orientale dell’edificio. Avvicinabili al periodo borsiano sono, per questa stanza, i finti marmi gialli e rossi con losanghe (fig. 8) che corrono al di sotto delle travature del soffitto. Successione marmorea che ricorda i marmi fatti dipingere da Borso sulla facciata del Palazzo[44]. Ad accertare una cronologia borsiana per tale intervento interviene l’analisi della stanza successiva.
Stanza degli Uomini illustri (Sale 3 e 7 del percorso museale)
La terza sala dell’ala trecentesca è un ambiente di ampie dimensioni. Quasi sovrapponibile per estensioni alla prima sala, quella delle bifore, questa potrebbe “certificare” la descrizione di una successione di camere e anticamere che ci è giunta con l’inventario del 1436. Questa stanza presenta, tre diverse stratificazioni pittoriche. La più antica, che corrisponde alla fascia posta più in basso, mostra una sequenza di nicchie con arco a sesto acuto e valva a conchiglia, sormontate da profili di facciate decorate a finti marmi, pinnacoli e gattoni (fig. 11).

Fig. 11 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza degli Uomini illustri, parete orientale, 1385-1391, 1458-1470
Tali figurazioni svettano su uno sfondo azzurro, sopra il quale corre il fregio tardo trecentesco costituito da una lunga fascia composta di elementi vegetali alternati a dischi in cui sono inseriti degli scudi, ormai illeggibili. Il nome dell’ambiente è moderno, dato dalla recente storiografia. La presenza però delle nicchie farebbe pensare che queste, forse come quelle dell’ambiente precedente, fossero abitate da figure. Un parallelo interessante si vede con la statua di Alberto V che si trova sulla facciata della Cattedrale[45]: la nicchia sulla quale la scultura si staglia presenta, al pari di queste dipinte, una valva a conchiglia (fig. 12).

Fig. 12 – Enrico da Colonia, Alberto V d’Este, scultura in marmo, 1393, facciata della Cattedrale di Ferrara
Un aspetto molto singolare della decorazione è la circostanza per cui a metà Quattrocento, in una stratigrafia coincidente con la fase legata a Leonello nella stanza precedente, tale decorazione venne interamente ridipinta con un medesimo motivo decorativo. Rimane, su una porzione della parete orientale, un lacerto di intonaco che si sovrappone a quello tardo trecentesco e riporta le medesime strutture architettoniche delle nicchie, leggermente sfasate dal punto di vista dell’altezza, stagliate su uno sfondo rosso morellone. Anche i gattoni vegetali, per quanto simili ai precedenti, sono stati riprodotti, ma con uno stile più affilato e sbrigativo (fig. 13).

Fig. 13 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza degli Uomini illustri, parete orientale, part. del doppio strato di intonaco dipinto, 1385-1391, 1441-1450
Più in alto di questa decorazione venne posto un nuovo fregio, di cui si riconosce una successione di conchiglioni, vasi, animali e busti maschili colti di profilo. Un vocabolario non poco archeologizzante, che ben si adatterebbe a una committenza di Leonello. Se così fosse, questi sarebbero, insieme al “volto tripartito”, gli unici lacerti di pittura murale sopravvissuti in ambito estense riferibili al marchesato di Leonello d’Este (fig. 14).

Fig. 14 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza degli Uomini illustri, parete orientale, fregio tardo trecentesco e decorazione di metà Quattrocento: 1385-1391, 1441-1450
In cima a questa fase decorativa si innesta la sopraelevazione borsiana. La decorazione visibile in questo ambiente certifica la cronologia dell’intervento, sia per questa sia per le altre camere (che presentano la medesima altezza). Il nuovo fregio è caratterizzato da una fascia a finto marmo e, più in alto, da una seconda striscia dipinta con un motivo geometrico a rondelle romboidali inanellate e scorciate. Tale motivo si ritrova anche sulle travi del soffitto e si collega con le decorazioni ad intarsio ligneo, pattern lì usato con frequenza ricorrente[46]. Sono le decorazioni del soffitto però a datare tale intervento al periodo di Borso: le travi riportano varianti del motivo decorativo appena descritto, mentre le pettenelle presentano un’alternanza di finti marmi (simili al fregio della sala precedente e alla facciata borsiana) e imprese personali di Borso (fig. 15).

Fig. 15 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza degli Uomini illustri, soffitto ligneo con decorazione tardo quattrocentesca, 1458-1470
Queste non sembrano essere disposte secondo un ordine preciso: osservando la trave meglio conservata, ovvero la seconda (a partire da nord), la faccia sud presenta[47], alternati, il graticcio[48], la colombaia e lo stemma del Ducato di Modena e Reggio[49].
Stanza dell’Aquila bianca (Sale 4 e 6 del percorso museale)
Questa sala, di dimensioni pari alla “stanza di Leonello”, doveva essere un’anticamera di uno dei due ambienti confinanti. Il nome si riferisce a un lacerto pittorico posto sulla parte alta della parete nord, dove rimane traccia del fregio. Questo era composto, per quanto visibile, da una fascia a fondo scuro abitata da un’alternanza di fogliami vegetali e compassi gotici. In uno di questi compare l’emblema familiare estense, ovvero l’aquila bianca, che doveva stagliarsi su fondo azzurro (fig. 16).

Fig. 16 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza dell’Aquila bianca, parete settentrionale, 1385-1391
La porzione sottostante della decorazione lascia intravvedere una successione di riquadri mistilinei con finti marmi su cui spiccano dischi traforati e con attorno cornici marmoree a loro volta traforate, una sequenza decorativa abbastanza tradizionale per le dimore private trecentesche (fig. 17). Nulla ci è rimasto invece della decorazione del periodo successivo.

Fig. 17 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza dell’Aquila bianca, angolo sud-est, 1385-1391
Stanza della Battaglia (Sala 5 del percorso museale)
L’ultimo ambiente dell’ala trecentesca è di dimensioni inferiori rispetto alle altre anticamere ed è, verosimilmente, solo una porzione di una precedente sala di più grandi dimensioni. La decorazione oggi visibile corre sulle pareti nord ed est. Il parato tardo trecentesco prevedeva, nella parte centrale, la narrazione di una serie di eventi bellici. Di questi si nota, sul muro nord, un gruppo di soldati posti al di sopra di una torre, caratterizzata da una merlatura a coda di rondine (fig. 18).

Fig. 18 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza della Battaglia, parete settentrionale, 1385-1391
I militi vestono un’armatura generica, peraltro mascherata da sorcotti rossi e gialli. Solo gli scudi circolari e alcuni elmi a punta sono ben riconoscibili. I soldati raffigurati di spalle presentano i capelli raccolti in trecce, forse ad indicare una loro provenienza orietale. Non è chiaro che tipo di arma stiano usando: si vedono le spade nei foderi portati alla vita. Si stanno sporgendo verso un nemico che possiamo immaginare in basso a sinistra. Probabilmente stanno scagliando le loro lance, ma il dipinto è mutilo[50]. Sulla parete orientale la “storia” proseguiva: su un medesimo sfondo blu, un altro gruppo di soldati, anche qui sulla cima di una torre, viene bersagliato da alcuni arcieri dalle vaghe fattezze orientali, vestiti con tuniche e turbanti bianchi (fig. 19). Anche in questo caso non è chiaro che tipo di arma i primi stiano usando, forse ancora una volta delle lance. Della narrazione raffigurata non rimane altro, né il supporto su cui gli arcieri poggiano i loro piedi per arrivare all’altezza della torre in cui si trovano i nemici (forse una torre d’assedio?).

Fig. 19 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza della Battaglia, parete orientale, 1385-1391
Il fregio tardo trecentesco è costituito da una serie di racemi vegetali in cui si alternano un rombo con decorazione a finto mosaico bicromo e un grande clipeo, la cui decorazione interna però non si è conservata. Come per le altre stanze, anche questa ha subito alterazioni nel corso del Quattrocento e, dal punto di vista della decorazione pittorica, sopravvive solo quella di epoca borsiana. Sul fregio trecentesco si imposta uno nuovo strato di intonaco con una decorazione a candelabre e delfini, con putti, frutta, pigne e infine elementi vegetali su uno sfondo rosso intenso (figg. 20-22) che ricorda esempi visibili a casa Romei e nel dormitorio del convento di Sant’Antonio in Polesine[51], e che doveva occupare la parte principale della parete. Da osservare ancora che il fregio posto in linea con il soffitto ripropone la già vista alternanza di finti marmi.

Fig. 20 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza della Battaglia, parete orientale, particolare del fregio tardo trecentesco (in basso, 1385-1391) e della decorazione del periodo borsiano (1458-1470)

Fig. 21 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza della Battaglia, parete orientale, particolare del fregio e della decorazione del periodo borsiano (1458-1470)

Fig. 22 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza della Battaglia, angolo nord-est, particolare del fregio e della decorazione del periodo borsiano (1458-1470)
Fortuna critica e riflessioni stilistiche
Le prime notizie critiche relative ai dipinti di quest’ala del Palazzo si devono a Ranieri Varese e si datano negli anni Settanta del secolo scorso[52], quando degli affreschi si potevano vedere solamente la scena della Battaglia e alcuni elementi architettonici della stanza degli Uomini illustri, che erano stati in parte pubblicati da Medri nel 1935[53]. Fu naturale, fin da subito, riferire questi interventi decorativi alla prima fase costruttiva dell’edificio tra il 1385 e il 1391. Immediatamente si notò il richiamo alla pittura di Altichiero da Zevio (1330 ca.-1390 ca.): seguendo questa chiave di lettura, lo studioso provò a raccogliere sotto la stessa egida i dipinti di Schifanoia, le finte architetture del chiostro di Sant’Antonio in Polesine e anche i dipinti trecenteschi di Palazzo Paradiso. Un corpus forse troppo vasto e sfaccettato, nonché privo di agganci concreti, solamente accomunato dal linguaggio molto vicino allo stile del pittore veronese[54]. Su questi termini si espresse Carlo Ludovico Ragghianti nel 1987, quando tornò sul rapporto tra i dipinti in questione e quanto rimane nel chiostro di Sant’Antonio in Polesine, denunciandone anch’egli il legame, ma non la medesima paternità[55]. Nello stesso anno anche Renzo Grandi, nella sua breve occhiata alla pittura emiliana tardogotica, associò i dipinti di Schifanoia alla pittura padovana altichieresca[56] .
Sulle fasi decorative quattrocentesche fu Di Francesco ad esporre le nuove scoperte, cinque anni dopo la fine dei restauri: il ritrovamento dei differenti strati di intonaco che nel corso del XV secolo si erano sovrapposti a quelli trecenteschi. La studiosa correttamente individuò quindi due fasi pittoriche (oltre a quella iniziale tardo trecentesca): la prima, in linea con il periodo di Leonello d’Este, di cui riconobbe l’impresa della Prudenza, la seconda, coerente con la collocazione del soffitto attuale e della sua decorazione.
L’ultima pubblicazione specifica sui dipinti di cui ci stiamo occupando risale al 2007: nel celebre e ricco volume dedicato al Palazzo edito per Panini, per la serie Monumenti d’Italia, è di nuovo Varese a descrivere i singoli ambienti dipinti[58]. Da allora la critica non ha più dedicato nuove attenzioni agli affreschi, la cui comprensione è comunque resa ardua dalla loro lacunosità.
Alla luce di tali osservazioni e di quelle presentate nell’analisi dei singoli ambienti, occorre stabilire alcuni punti fermi. In primis, per quanto possibile, l’osservazione stilistica dei parati decorativi e la loro cronologia. I lacerti d’affresco più antichi collocati nelle cinque stanze dell’ala trecentesca si possono considerare come parti di un medesimo cantiere pittorico. Il lessico utilizzato nei diversi ambienti, per quanto variabile e non identico in ogni stanza, è tipico e ricorrente nel XIV secolo. Si veda in particolare la cosiddetta stanza dell’Aquila bianca, che presentava in origine una decorazione geometrica e mistilinea molto comune in area padana nel Trecento[59]. I fregi di tutti gli ambienti, con mosaici, elementi geometrici ripetuti in serie, compassi gotici e fogliami vegetali sono altresì prodotti di una medesima cultura pittorica. A dimostrazione della presenza di una bottega unica attiva in queste stanze, nella sala dell’aquila e quella di Leonello sono presenti dei rosoni traforati di identico disegno (figg. 23-24).

Fig. 23 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza di Leonello, particolare di uno dei rosoni traforati della parete orientale, 1385-1391

Fig. 24 – Palazzo Schifanoia, ala albertiana, Stanza dell’Aquila bianca, particolare di uno dei rosoni traforati della parete orientale, 1385-1391
Più difficoltosa è la lettura dei pochi lacerti figurati, ossia la figura coronata raffigurata nella prima stanza e i combattenti nell’ultima: le figure, se messe a fianco, non sembrano perfettamente sovrapponibili, ma sono anche da considerare le eventuali variazioni di tono e di qualità consuete all’interno dei cantieri condotti da grandi botteghe o da botteghe incaricate di decorare ampie metrature di superficie. Le decorazioni pittoriche più antiche conservate nei cinque ambienti dell’ala trecentesca sono quindi databili al periodo della prima edificazione del Palazzo. Sembra comunque interessante notare come, al di sotto dell’intonaco trecentesco della sala della Battaglia, siano presenti dei tratti a sinopia che non combaciano coi dipinti superiori.
Sotto il motivo ad archetti dorati e traforati posto sopra il gruppo degli arcieri orientali, una lacuna nell’intonaco dipinto mostra al di sotto alcuni brevi tocchi in terra rossa raffiguranti, senza dubbio, parte di un velario (fig. 19). Poco più a destra, sempre sotto l’intonaco dipinto, c’è il disegno di un uomo con uno strumento musicale e, a circa un metro sopra di lui, quanto rimane di alcune lettere: M, E, A, disposte su due livelli e intervallate da altre lettere non più identificabili. Cosa siano queste decorazioni o a cosa si riferiscono non è facile capire, forse potrebbero essere dei “disegni da cantiere” fatti dai muratori prima che la parete venisse coperta dagli strati di arriccio e di tonachino[60].
La datazione dei dipinti è confermabile anche dal modello stilistico a cui l’anonimo capo bottega fa riferimento per le sue invenzioni: la spiccata attenzione verso gli elementi architettonici, come rosoni traforati, ma anche ghimberghe gattonate, finti marmi, bifore e nicchie con valve di conchiglia ricordano immediatamente la pittura di Altichiero da Zevio.
Anche le figure dei combattenti, così rotondi e corposi, sembrano essere il frutto di meditazioni sulla pittura del grande artista veronese. Osservando il resto della pittura ferrarese di fine secolo, sembra evidente come questa e altre botteghe subirono una forte fascinazione dello stile altichieresco: per questo motivo, credo, Varese giunse a considerare i dipinti di Schifanoia, quelli di Palazzo Paradiso e i lacerti d’affresco del chiostro di Sant’Antonio in Polesine come opere della medesima mano. In realtà, i tre cantieri vennero condotti da tre mani diverse in tempi molto ravvicinati: il primo è forse il Maestro del Giudizio Universale[61], un pittore di altissimo livello attivo nel monastero dopo il 1384 per gli evidenti legami con il ciclo altichieresco dell’oratorio di San Giorgio a Padova[62].
Il pittore di Palazzo Paradiso[63] lavora contemporaneamente al maestro attivo a Schifanoia: data la mole del lavoro, è improbabile che i numerosi ambienti dei due palazzi siano stati decorati dalla medesima bottega, per quanto alcune tangenze siano comunque evidenti. Prendendo a modello i cantieri pittorici estensi del Quattrocento, si potrebbe immaginare che i lavori decorativi di questi due palazzi (e forse anche di Belfiore) siano stati affidati ad unico responsabile, a cui vanno riferite le scelte organizzative, decorative e compositive, che poi avrebbe diviso i lavori tra varie maestranze a lui sottoposte, non necessariamente suoi allievi ma anche colleghi e collaboratori “occasionali”[64]. L’ipotesi, pur affascinante, non può essere confermata né da fonti documentarie né da accostamenti stilistici tali da giustificare una responsabilità comune per i dipinti dei due palazzi.
Nemmeno il confronto tra i rosoni traforati dipinti nei due palazzi ha portato a sovrapposizioni degne di nota. I dischi traforati dipinti nella sala di Ercole e in quella del Falcone, in Palazzo Paradiso, presentano un disegno di fondo molto articolato, dove elementi polilobati, rettangolari e trilobati giocano tra di loro. Prodotti di mascherine molto complesse. Diversamente, i rosoni traforati di Palazzo Schifanoia presentano un’articolazione nettamente inferiore e una riduzione delle forme usate. Tra quelli rimasti, pare che nessun piatto traforato si trovi identico nei due palazzi, circostanza che comunque non sarebbe bastata per certificare un’identità di mano tra i due cantieri, ma avrebbe comunque suggerito l’esistenza di una comunicazione (fig. 25).

Fig. 25 – Schema riassuntivo del rapporto tra i rosoni traforati dipinti di Palazzo Paradiso (1391-1393) e analoghi esempi di Palazzo Schifanoia (1385-1391) [Foto e schema a cura dell’autore]
Gli affreschi di Schifanoia e Palazzo Paradiso sembrano quindi tra loro accomunati solo dai riferimenti altichiereschi, calibrati e tradotti con diverse accezioni, talvolta comuni. Se infatti gli elementi di architetture reali e fantastiche sembrano ripetere nei due palazzi medesime idee e soluzioni (i gattoni fogliacei, i dischi decorati a trapano, ecc.), non abbiamo sufficienti elementi per poter valutare consapevolmente il colpo d’occhio delle decorazioni finite.
Rimane comunque l’impressione di una diversità anche stilistica tra i due cantieri: confrontando la sala di Ercole con gli arcieri di Schifanoia, i secondi sembrano caratterizzati da una maggiore dinamicità, paiono infatti più sciolti e movimentati delle figure dipinte dal comunque notevole pittore attivo in Palazzo Paradiso. Tale fase artistica va a mio avviso collocata entro il marchesato di Alberto V, anche per via dei turbolenti eventi che caratterizzarono la successione dinastica fino al sorgere del nuovo secolo, quando i dipinti, qualora fossero stati realizzati in quel momento, avrebbero manifestato un linguaggio più aggiornato e meno legato all’esperienza altichieresca, come in realtà essi sono.
Conclusione
Come abbiamo visto, la prima testimonianza che descrive il Palazzo al momento delle sue origini è tarda, essendo datata al 1436. L’inventario di quell’anno elenca alcuni ambienti, ma l’impressione è che il documento sia parziale e non esaustivo. Di Schifanoia sono descritti solamente la “loggia lunga”, la camera del Signore, la camera degli alifanti, quella delle donzelle e dei cimieri, una dedicata a san Giorgio, la camera delle pigne e una delle ruote: denominazioni che appaiono lontane però da quanto sopravvissuto all’interno dell’edificio.
Si può cercare, comunque, di ricostruire il percorso descritto dagli inventari: che potrebbe partire dal corpo posto a ovest, ovvero la camera del marchese, forse identificabile nel corpo di fabbrica occidentale andato perduto. Nella descrizione del 1436 di quell’ambiente è specificata la sua relazione con la loggia: confrontando tale descrizione con le assonometrie realizzate per ricostruire le fasi edilizie dell’edificio, si potrebbe ipotizzare che la loggia servisse come un lungo e fastoso ingresso verso la camera del princeps. Nel documento vengono descritte prima le camere e poi le anticamere: se si segue questo percorso, da ovest a est, nella scansione degli ambienti attuali del Palazzo le stanze più piccole e strette potrebbero essere state le anticamere degli ambienti più ampi posti immediatamente a occidente. Dopo la “camera del signore”, nel documento segue la “camera degli alifanti”, ovvero elefanti, che non sembra a prima vista identificabile con nessuna delle attuali.
Tuttavia, non escludo la pur stravagante possibilità che la descrizione dell’ambiente si riferisca a un particolare della decorazione e non al ciclo intero. Pensando infatti alla cosiddetta “Stanza della Battaglia”, di cui rimangono solo due scene di scontro bellico, tra cui una di militi in abiti orientali intenti ad assediare una città, è possibile che degli elefanti fossero dipinti nella parte bassa della scena e fossero usati come mezzi di combattimento.
Si potrebbe quindi ipotizzare che, col trascorrere dei decenni, si sia perso il riferimento iconografico originale e che al documentarista del 1436 saltassero agli occhi solamente gli elefanti. Tale ipotesi contrasta però con la ricorrenza del tema della stanza anche tra le sale descritte nel Palazzo marchionale e in altri ambienti estensi[65]. Seguirebbe l’anticamera, ovvero la sala dell’“aquila bianca”, poi la “camera delle donzelle e dei cimieri”[66], anch’essa apparentemente non identificabile nel tessuto attuale del Palazzo. Forse, però, si potrebbe presumere che le nicchie con valva a conchiglia della cosiddetta sala degli “uomini illustri” ospitassero in origine delle donne, forse un ciclo di eroine[67], e che i cimieri occupassero la zoccolatura dell’ambiente, o in alternativa che fossero collegati alle donne dipinte. La sala di Leonello sarebbe quindi l’anticamera della predetta stanza.
La terza camera descritta, quella dedicata a san Giorgio, potrebbe essere la moderna sala delle bifore, vista la presenza di alcuni riquadri narrativi abitati da imponenti elementi architettonici e della figura femminile coronata affacciata dalla sommità di una torre. Scena che potrebbe confrontarsi con quanto narrato nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (1228-1298), che racconta di come il santo salvò una principessa dagli artigli di un drago. Seguendo questa successione, del tutto perdute sembrano essere la camera delle pigne e quella delle ruote.
Nel corso dei lavori che interessarono Palazzo Schifanoia nel XV secolo, anche questa porzione dell’edificio venne coinvolta: prima con gli interventi databili al periodo di Leonello d’Este, che però non sembrano combaciare con i dati archivistici in nostro possesso, e poi con il cantiere borsiano condotto nel corso degli anni Sessanta. Intervento, quest’ultimo, che comportò un adattamento della struttura e della sua decorazione, che venne investita, al pari delle altre dimore del futuro duca di Ferrara, delle sue imprese personali. Un ciclo, questo, di cui ci rimangono solamente i finti marmi posti sul fregio di tre stanze, alcune pettenelle nella “sala degli uomini illustri” e lacerti del parato decorativo nella “stanza della battaglia”. Qui in particolare gli elementi vegetali e zoomorfi sembrano ricordare i dipinti di san Martino in Rio e di Sassuolo della bottega degli Erri, del 1460 circa, ma anche i dipinti ferraresi dello “studiolo” di casa Romei. Un capitolo, quest’ultimo, che appartiene però già a una fase nuova e diversa della pittura ferrarese.
Note
[1] Il presente studio è un estratto del lavoro di ricerca che sto conducendo come dottorando di ricerca presso l’Università di Firenze, tutor Andrea De Marchi. Con il mio progetto, dal titolo Casa Minerbi-Del Sale e la decorazione domestica ferrarese tra Tre e Quattrocento, intendo indagare le decorazioni pittoriche domestiche sia di edifici Estensi sia di privati cittadini. Colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente Giovanni Sassu, per la disponibilità e l’opportunità di scrivere per questa rivista.
[2] Sulla storia del Palazzo rimando, tra i tanti a disposizione, ai seguenti interventi: G. Medri, Il Palazzo estense di Schifanoia dal secolo XIV al secolo XX, “Ferrara”, III, 13, 1935, pp. 323-328; B. Zevi, Biagio Rossetti architetto ferrarese: il primo urbanista moderno europeo, Torino 1960, pp. 31-37; S. Ghironi, F. Baroni, Note storiche su Palazzo Schifanoia, “Atti e memorie della Deputazione Provinciale Ferrarese di Storia Patria”, XXI-XXII, 1975-1976, pp. 97-170; G. Biondi, La letteratura sul Palazzo di Schifanoia, in Atlante di Schifanoia, a cura di R. Varese, Modena 1989, pp. 25-35; A.M. Visser Travagli, Schifanoia: da “delizia” a Museo, ivi, pp. 141-154; C. Di Francesco, Il restauro dell’ala trecentesca, ivi, pp. 155-172; S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia, 2 voll., Modena 2007; C. Di Francesco, Schifanoia. Delizia, “Fabbrica”, Palazzo, Museo, ivi, I, pp. 51-82.
[3] Si tratta del Palazzo Paradiso, sede della Biblioteca Ariostea, e di Palazzo Belfiore, oggi distrutto. Tutte le fonti antiche che parlano della costruzione di Schifanoia, tra cui Equicola, descrivono i tre cantieri come contemporanei.
[4] U. Caleffini, Croniche 1471-1494, Ferrara 2006, p. 3.
[5] G. Antonelli, Indice dei manoscritti della civica biblioteca di Ferrara, I, Ferrara 1884, p. 46.
[6] Non ho trovato altre informazioni relative a questo toponimo, che forse potrebbe aver suggerito il nome di Palazzo Paradiso.
[7] Si tratta del gruppo di case che sorgevano allora fuori dalle mura e presso la Porta del Leone, che dal 1385 venne inglobata nel Castello.
[8] Biblioteca Ariostea di Ferrara [=ABAFE], ms. Classe I 67, ff. 68v-69r.
[9] Ivi, ms. Classe II 349, p. 35.
[10] Ripetuta in L.N. Cittadella, Guida pel forestiere in Ferrara, Ferrara 1873, p. 82; G. Campori, Gli architetti e gl’ingengeri civili e militari degli Estensi dal secolo XIII al XVI, Modena 1883, p. 36; G. Agnelli, Il Museo di Schifanoia in Ferrara, Ferrara 1898, p. 7.
[11] Medri, Il Palazzo estense cit., p. 323.
[12] G. Bargellesi, Palazzo Schifanoia: gli affreschi nel “Salone dei Mesi” in Ferrara, Bergamo 1945, pp. 5-8; Zevi, Biagio Rossetti cit., pp. 31-37; Ghironi-Baroni, Note storiche cit., pp. 97-99; Biondi, La letteratura cit., pp. 25-27; Visser Travagli, Schifanoia, cit., p. 141; A.F. Marcianò, L’età di Biagio Rossetti: rinascimenti di casa d’Este, Ferrara 1991, pp. 49-57; A.M. Visser Travagli, Topografia urbana delle origini, in Ferrara nel medioevo: topografia storica e archeologia urbana, catalogo della mostra (Ferrara, 10 settembre 1994 – 5 marzo 1995) a cura di A.M. Visser Travagli, Casalecchio di Reno 1995, pp. 28-32; Di Francesco, Schifanoia cit., pp. 51-55.
[13] Come prospettato in: Visser Travagli, Schifanoia cit., p. 141.
[14] Sugli affreschi di Palazzo Paradiso non posso soffermarmi in questa occasione ma, anche in base alle mie recenti ricerche documentarie, araldiche e storico-artistiche, posso confermare per la gran parte dei dipinti di questo Palazzo la datazione ante 1393 (ad eccezione della Sala del Falcone). Tali osservazioni verranno esposte nella mia tesi dottorale e negli atti del convegno: Dentro e fuori la corte. La pittura profana di tema politico nel Nord Italia tra Tre e Quattrocento (Rovereto, Accademia degli Agiati, 7-8 aprile 2022), a cura di D. De Cristofaro e M. Beato, Verona, in corso di stampa (fine 2023).
[15] Sui dipinti trecenteschi di questo Palazzo si veda anche: C. Guerzi, La decorazione trecentesca a carattere venatorio della loggia della delizia di Belfiore e gli albori del tardogotico estense, “Critica d’Arte”, LXXVIII, 2021, 7/8, pp. 17-30.
[16] Sull’atto di donazione dell’edificio ad Alessandro Sforza nel 1437 si veda più avanti.
[17] Nel corso della mia ricerca dottorale mi sono imbattuto nel fondo “Notai Camerali”, depositato presso l’Archivio Segreto Estense (Archivio di Stato di Modena).
[18] Archivio di Stato di Modena, Archivio Estense, Notai Camerali [=ASMo AE NC], IV. Petronio da Bologna, f. 96v.
[19] Ivi, f. 144r.
[20] Sulla loggia si veda in dettaglio: Ghironi-Baroni, Note storiche cit., pp. 126-130.
[21] Ivi, pp. 121-126; Di Francesco, Schifanoia cit., pp. 60-62.
[22] La proposta di Ghironi-Baroni prova a riempire un vuoto ipotizzando spazi e pareti solo ipotetiche, non basate su scavi e rilevazioni stratigrafiche. Per questo scrivo che la proposta dei due architetti, che qui comunque riproduco graficamente, è indicativa ma non del tutto affidabile.
[23] Il documento (conservato presso l’Archivio di Stato di Modena, Archivio Estense, Camera, Amministrazione dei Principi [=ASMO AE C AP], ms. 1), noto già al Cittadella nell’Ottocento, venne pubblicato una prima volta da Giulio Bertoni ed Emilio Vicini nel 1907 e da allora è stato sempre considerato la fonte principale per la conoscenza della strutturazione interna delle dimore estensi cittadine (G. Bertoni-E. Vicini, Il castello di Ferrara ai tempi di Niccolò III: inventario della suppellettile del castello, 1436, Bologna 1907). Il manoscritto si estende per più di sessanta fogli fronte e retro e consiste principalmente nell’inventario dei beni mobili del marchese depositati all’interno dell’edificio marchionale, di Castelnuovo, di Palazzo Paradiso e Palazzo Schifanoia. Purtroppo non ci rimane documentazione simile relativa al Castello di San Michele, al Palazzo di Belfiore e alle altre dimore estensi, cittadine e non. L’inventario del 1436 percorre gli ambienti degli edifici descritti e ne riporta l’interno, tramandando ai posteri l’entità dei beni mobili, quindi anche dei libri, posseduti dal marchese e dalla sua famiglia. Coloro che infatti stendono l’inventario, ovvero i notari Valeri di Betto e Pietro de’ Lardi, utilmente descrivono i beni stanza per stanza, dando un riferimento all’ambiente in cui si trovano. Come di frequente accade, anche per simili documenti rogati in altre corti italiane, le stanze citate sono chiamate con degli appellativi che riguardano o la loro funzione, come la cuxina o la chanceleria, o con gli oggetti qui conservati, come la camera dei pavaiuni o quella delle sele antige, o il tema decorativo che ne caratterizza le pareti e il soffitto. Queste notazioni permettono a noi oggi di conoscere i temi ornamentali usati in alcune delle stanze descritte, così come ci dimostrano che spesso la decorazione di una stanza le conferiva (almeno per i suoi abitanti) anche il nome: considerazione che vale ovviamente per i grandi complessi edilizi che prevedevano tante stanze e non per le dimore private, più piccole e dotate di un numero minore di ambienti.
[24] La parte dell’inventario riferita a Schifanoia si trova, nella pubblicazione di Bertoni e Vicini, Il castello cit., alle pagine 135-138.
[25] Ovvero, degli elefanti (ivi, p. 135). La camera era dotata di un’anticamera, ibidem.
[26] Ivi, p. 136, con anticamera, ibidem.
[27] San Giorgio, ibidem. Anche questa camera era dotata di un’anticamera.
[28] Ivi, pp. 136-137.
[29] Si tratta di un’impresa altrimenti ignota. Ivi, p. 137. La stanza era dotata di un’anticamera, ibidem.
[30] Ibidem, si tratta dell’impresa della Ruota, cara già a Niccolò II d’Este.
[31] Ivi, p. 138. Nessuna delle stanze sopra citate presenta elementi interessanti tra i beni elencati.
[32] L’inventario del 1436 è un documento di fondamentale importanza perché ci tramanda la presenza di temi decorativi che altrimenti non avremmo mai conosciuto. Tuttavia, il medesimo contiene alcune complicazioni di non poco conto. Ci sono delle stanze di Palazzo Paradiso che oggi presentano decorazioni figurative che nell’inventario non sono considerate. Si pensi all’ex-ingresso con l’ampio ed enigmatico ciclo in terra verde, risolto con un veloce «in la intrada apreso la porta», che nel 1436 era già stato riadattato ad abitazione (e credo che ciò sia andato a scapito della decorazione stessa; Bertoni-Vicini, Il castello cit., p. 138). Oppure si pensi alla loggia del primo piano, al lungo salone che oggi collega la Sala del Falcone con quella di Ariosto o alla cosiddetta “Sala Rossa”. Tali circostanze, come nel caso del Palazzo marchionale, spingono a guardare all’inventario del 1436 come a un importante documento da leggere solo in “positivo”, non dandogli cioè un’importanza assoluta. Si tratta quindi di una testimonianza affidabile solo per quanto viene descritto, e non per quanto viene omesso. L’assenza di riferimenti alle sale sopra citate forse è dovuta alla mancanza di beni al loro interno: l’obiettivo dell’inventario è di schedare i beni mobili posseduti dalla famiglia, non di ricostruire l’articolazione dei loro possedimenti immobiliari.
[33] Medri, Il Palazzo cit., p. 324; Biondi, La letteratura cit., pp. 25-26.
[34] Sul condottiero si veda: E. Rossetti, Sforza, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCII, 92, 2018 (https://www.treccani.it/enciclopedia/alessandro-sforza_(Dizionario-Biografico);/).
[35] «[…] palazzo chiamato Schifanoia, in muratura, con soffitto, con anche ampio giardino e cortile e con un portico in muratura, collocato a Ferrara in contrada San Vitale, entro i suoi confini e relative pertinenze. Tale palazzo brilla come il diamante di un anello. Infatti l’amenità, il diletto e lo splendore caratterizzano l’edificio, circondato da altre magnifiche case» (traduzione dell’autore). ASMo AE NC, XXXIII A. Costantino de’ Lardi, f. 77v. Il documento è noto alla critica sin da A. Venturi (A. Venturi, Gli affreschi del Palazzo di Schifanoia in Ferrara: secondo recenti pubblicazioni e nuove ricerche, “Atti e memorie delle Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna”, III, 1885, 3, pp. 381-414), ma è stato trascritto per la prima volta in Biondi, La letteratura cit., pp. 25-26.
[36] Il passaggio del despota di Morea in Palazzo Schifanoia viene ricordato per la prima volta da Venturi in Gli affreschi cit.
[37] G. Tiraboschi, Memorie storiche modenesi, IV, Modena 1794, pp. 72-73; Biondi, La letteratura cit., p. 26; Di Francesco, Schifanoia cit., p. 53.
[38] Ma tale cifra potrebbe riferirsi al Palazzo finito nel Quattrocento, compreso quindi del nuovo piano e delle decorazioni commissionate da Borso.
[39] In realtà, l’unica fonte che attesta lavori a Palazzo già nel 1458 è Filippo Rodi nei suoi annali in cui riporta che Borso avrebbe fatto aggiungere “molti ambienti” al Palazzo già fatto edificare dallo zio Alberto: ABAFe, Classe I, ms 645; Zevi, Biagio Rossetti cit., p. 58; Biondi, La letteratura cit., p. 26; Di Francesco, Schifanoia cit., p. 53.
[40] cfr. note nn. 25, 26, 27, 29.
[41] Idem, Il restauro cit.
[42] Una decorazione simile, ma non identica, si vede anche a Treviso, in un ambiente del primo piano di Casa Brittoni.
[43] La medesima si vede sul verso della prima medaglia che Pisanello realizzò per il marchese tra il 1441 e il 1443. Sull’attività medaglistica di Pisanello rimando a: G.F. Hill, A Corpus of italian medals of the Renaissance before Cellini, I, London 1930, pp. 6-13; J. Woods-Marsden, Art and Political Identity in Fifteenth-Century Naples: Pisanello, Cristoforo de Geremia and King Alfonso’s Imperial fantasies, in Art and Politics in Late Medieval and Early Renaissance Italy, 1250-1500, a cura di C.M. Rosenberg, Notre Dame 1990, pp. 11-13; L. Puppi, Pisanello. Una poetica dell’inatteso, Cinisello Balsamo 1996, pp. 138-193; D. Gasparotto, Pisanello e le origini della medaglia rinascimentale, in Pisanello, catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio, 8 settembre – 8 dicembre 1996), a cura di P. Marini, Milano 1996, pp. 325-330.
[44] Ancora visibili nell’ultimo ambiente del primo piano, aggiunto da Ercole I sulla facciata orientale dell’edificio, conservandone così l’originaria decorazione.
[45] Il monumento, inaugurato il 25 marzo 1393, venne commissionato dai Savi e sul fianco, in calce alla lunga iscrizione che riporta il testo della bolla bonifaciana del 1391, è firmato dall’altrimenti ignoto Enrico da Colonia, orafo. Cfr. Medri, La scultura cit, p. 36; C.M. Rosenberg, Art in Ferrara during the reign of Borso d’Este (1450-1471), Ann Arbor 1974, pp. 36-42; Idem, The Este monuments and urban development in renaissance Ferrara, Cambridge 1997, pp. 25-45.
[46] Si veda in particolare le opere dei Canozi per la Cattedrale di Modena e il Duomo di Parma, ma anche alle più tarde tarsie del coro di Sant’Andrea.
[47] Tra un’impresa e l’altra è sempre presente una decorazione a finto marmo.
[48] Una versione del paraduro ma senza la zucca e il motto “fido”.
[49] Ovvero lo stemma ottenuto da Borso al momento della nomina ducale del marzo 1452: Per quanto riguarda la blasonatura degli stemmi estensi rimando a: V. Ferrari, L’araldica estense nello sviluppo storico del dominio ferrarese, Ferrara 1989, pp. 28-31.
[50] Non si vedono archi né balestre.
[51] Sui dipinti del monastero femminile di Sant’Antonio in Polesine si veda: R. Varese, La chiesa e il convento di Sant’Antonio in Polesine, in Il Museo civico in Ferrara: donazioni e restauri, a cura di E. Bonatti, Firenze, Centro Di, 1985, pp. 151-155. Per quanto riguarda i dipinti di casa Romei, mi riferisco all’ambiente chiamato erroneamente studiolo: C. Muscolino, Casa Romei: una dimora rinascimentale a Ferrara, Bologna 1989; L. Aggio, Le tavole dipinte di casa Romei: alcune note per una possibile interpretazione iconografica, “Annali dell’Università degli Studi di Ferrara”, XV, 2020, pp. 155-176.
[52] R. Varese, Novità a Schifanoia, “Critica d’Arte”, XVII, 1970, 113, pp. 49-62; Idem, Trecento ferrarese, Milano 1976, pp. 47-53.
[53] Medri, Il Palazzo cit., p. 323.
[54] Pochi anni dopo, forse in seguito ai lavori di restauro condotti attorno al 1983 da Di Francesco, il primo catalogo raccolto da Varese venne da questi rivisto: R. Varese, Il ciclo cosmologico di Schifanoia: un momento della civiltà cortese in Europa, in The Renaissance in Ferrara and its European horizons, a cura di J. Salmons, Ravenna 1984, p. 313.
[55] C. L. Ragghianti, Pittura tra Giotto e Pisanello. Trecento e primo Quattrocento, Ferrara 1987, pp. 42-43.
[56] R. Grandi, La pittura tardogotica in Emilia, in La pittura in Italia. Il Quattrocento, I, Milano 1987, p. 228.
[57] Di Francesco, Il restauro cit.
[58] Settis e Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia cit., vol. II, pp. 18-38.
[59] Tale motivo decorativo, che ritorna anche nella stessa Ferrara (Casa Minerbi-Del Sale, Palazzo Marchionale), si trova frequentemente nelle decorazioni domestiche trecentesche in tutto il nord Italia: tra i vari esempi si veda Treviso (Casa Brittoni), Verona (Castelvecchio), il Castello di Avio (al primo piano del cosiddetto Palazzo Baronale), Padova (Castello Carrarese), nel Castello di Pandino.
[60] Lettere simili, ma di più piccole dimensioni, sono state ritrovate sulle pareti del transetto destro della Chiesa di Sant’Anastasia a Verona.
[61] Il pittore, nonostante l’alta qualità delle sue opere, è poco studiato: Varese, Trecento cit., pp. 47-53; Ragghianti, Pittura cit., figg. alle pp. 170-171.
[62] Mi riferisco ai lacerti d’affresco rimasti sulla parte alta della parete settentrionale del chiostro di Sant’Antonio in Polesine, di cui si conservano solamente i pinnacoli, le balaustre e null’altro. Quanto sopravvive basta però a identificare la scenografia lì dipinta con quella che Altichiero, nel 1384 circa, aveva imbastito alle spalle de San Giorgio battezza re Servio nell’oratorio di San Giorgio a Padova. I confronti sono incredibilmente precisi: il punto di fuga centrale per la navata della basilica con due campate, la coppia di trifore, lo sporto con quella singolare copertura curvilinea, persino la porta semiaperta dietro la prima trifora e lo schema delle decorazioni delle coppie di trifore in alto. Date le poche tracce rimaste non sappiamo se anche la scena sottostante riprendesse le storie di San Giorgio dipinte da Altichiero, ma tanto basta per poter datare le finte architetture post 1384 e credere ragionevolmente che il loro autore non abbia solamente visto il cantiere padovano ma che, data la profonda conoscenza di questo ciclo, vi ci abbia anche partecipato.
Mi sembra percorribile l’ipotesi che l’autore di questi affreschi sia lo stesso di cui rimangono, sulla parete orientale del suddetto edificio, tracce di una grande composizione raffigurante un Giudizio Universale e, nell’angolo a sinistra, Due sante di altissima qualità: anche in questi passaggi, saturi di figure e privi di riferimenti architettonici a noi utili, è molto evidente il riferimento alla pittura di Altichiero e ad un neogiottismo mediato dalla conoscenza della recente pittura padovana.
[63] Il pittore di Palazzo Paradiso è una figura che a mio avviso si muove tra l’esperienza del sopracitato anonimo Maestro del Giudizio e il più giovane Maestro della tavola G.Z., ovvero appartenente a una generazione che da una parte rimase ammaliata dalla pittura padovana del tardo Trecento e che dall’altra parte ebbe la fortuna e l’intelligenza di sapersi aggiornare sulle novità portate da Gentile da Fabriano in area padana, subito dopo la sua partenza da Pavia. Credo che tutti i cantieri pittorici di Palazzo Paradiso siano associabili alla medesima mano, pur in momenti diversi: entro il 1393, le decorazioni della sala di Ercole e dei corridoi del primo piano, mentre nel primo decennio del Quattrocento va collocata la sala dei Falconi, debitrice delle novità gentilesche. Nutro qualche dubbio sull’ambiente che componeva l’ex ingresso all’edificio, ma potrebbe trattarsi di opera di collaboratori, sempre guidati dalla sapiente organizzazione del capo bottega.
[64] Su questa modalità di lavoro, che emerge in maniera molto chiara nei primi mesi del 1452 per le decorazioni che Borso commissionò a vari pittori ferraresi in occasione del passaggio di Federico III imperatore (anche se in quella occasione occorre dire che questa modalità lavorativa, quasi collegiale, era dovuta anche alla fretta e alla scarsità di tempo a disposizione), rimando a: M. Toffanello, Le arti a Ferrara nel Quattrocento: gli artisti e la corte, Ferrara 2010, pp. 31-38 e 45-58.
[65] Una “chamera degli alifanti” è descritta in Palazzo Marchionale nel medesimo inventario del 1436 (Bertoni-Vicini, Il castello cit., pp. 69-70).
[66] Ovvero l’ambiente già citato nell’atto del 1414 (vedi nota 19).
[67] Viene subito in mente il ciclo del Palazzo Baronale della Manta (Cuneo), con la successione di Eroi ed Eroine, ma in questo caso sembra che il ciclo sia dedicato solamente alle seconde.