La prima parte di questo scritto è stato pubblicato sul numero 2 di “MuseoinVita”

Anche il 2016 finisce con un nulla di fatto: il cantiere dei lavori di messa a norma antisismica di Palazzo Schifanoia, e la sua conseguente revisione museografica, resta a tutt’oggi un progetto, per quanto – si viene rassicurati – l’aggiudicazione dei lavori dovrebbe avvenire nel 2017.

Fatto sta che dal work in progress speravo di prendere spunti per una riflessione più ampia attorno al “museo nel suo farsi”. Non è stato così, e pertanto si rimanda al prossimo numero di “MuseoinVita”, riservando a questa uscita alcune osservazioni ancora una volta extra ordinarie, per non dire proprio eterodosse, sull’istituzione “museo”, la cui nascita coincide più o meno con quella delle discipline della storia dell’arte e dell’estetica, e che anticipa di poco la dichiarazione hegeliana della morte dell’arte[1]. Coincidenze che mi sembra potrebbero suggerire proficue meditazioni che, chissà, non valga la pena prima o poi di affrontare. Per ora, comunque, soltanto alcune riflessioni su un appunto scritto da Georges Didi-Huberman.

In un frammento a margine di note drammaturgiche stese per la messa in scena di una commedia, lo studioso francese scrive «insomma, che cosa vedremo in questo spettacolo? – Non credo tu faccia la domanda giusta. Dovremmo chiederci invece: in che modo questo spettacolo può interpellare la nostra intima capacità di vedere[2].

Considerando il significato ambiguo del termine “spettacolo”, nulla ci vieta di riferire quanto riportato anche al museo (o a un quadro, a una scultura…), e pertanto potremmo chiederci:

in che modo [il museo] può interpellare la nostra intima capacità di vedere.

Prendendo questa parafrasi come buona, noteremo subito che si è verificato un rovesciamento del comune verso dell’azione tra soggetto e oggetto: non noi interpelliamo il museo, ma il museo interpella noi e, più precisamente, di noi viene interpellata la nostra capacità di vedere[3]. Non è uno spostamento relazionale di poco conto, e mette in gioco un modo differente di rapportarsi con il museo poiché, nell’ottica di Didi-Huberman, si suppone che non noi poniamo domande al museo, ma che il museo pone domande a noi, anzi, alla «nostra intima capacità di vedere».

Conviene subito puntualizzare che con questa provocazione qui si tende a evidenziare la possibilità di assumere una differente postura nei confronti del museo, del suo contenuto e anche di qualsiasi altra espressione artistica. Di fronte a un’opera d’arte l’atteggiamento più comune è quello di chiedersi cosa significa e, nel caso non riuscissimo con i nostri mezzi culturali, di chiedere spiegazioni a chi questi mezzi li possiede. Ovviamente non c’è nulla di sbagliato in tutto ciò, ma se ci limitiamo ad accontentarci di questo (che comunque non è poco) rischiamo di perderci dell’altro. In fondo siamo più attenti a colmare (o a subire) le nostre lacune conoscitive, e siamo meno attenti a cogliere quelle di ordine sensoriale ed emotivo, insomma quelle legate più strettamente alla nostra interiorità[4]. D’altronde Didi-Huberman parla di un interpello alla nostra intima capacità di vedere, e quell’aggettivo non è lì per ornamento.

Fermo restando che l’approccio strettamente storico-artistico non va eluso né subordinato – e non vale la pena ribadirne le motivazioni –, ciò che andrebbe riscoperto all’interno dell’atto conoscitivo di un museo, e conseguentemente delle opere esposte, è il puro e semplice, ma non per questo meno complesso, “sentire”[5].

A questo veicolo di informazioni il museo dovrebbe prestare più attenzione, ovviamente se distinguiamo il “sentire le emozioni” dall’“emozionarsi”, l’ascolto interiore dalla sua manifestazione[6].

Iniziando il suo excursus storico sui beni culturali, Carlo Tosco cita l’entrata del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau nella lista UNESCO del patrimonio mondiale dell’umanità, evidenziando che questa inclusione non era certo dovuta a meriti estetici e tantomeno come «testimonianza di civiltà», ma come «la volontà di trasformare un luogo di dolore in un monumento, nel senso etimologico del significato, un ammonimento per il futuro, uno spazio di meditazione, un luogo conservato per non dimenticare»[7]. Ecco: emozionarsi ad Auschwitz è frutto di superficialità, sentire un’emozione invece è collegarsi direttamente con la storia restando comunque collegati con il nostro presente, e dunque facendo i conti con la parte più intima di noi stessi.

Note

[1] Utile a questo riguardo la lettura di F. Vercellone, Dopo la morte dell’arte, Bologna 2013, che tanti spunti prende da H. Belting, Das Endeder Kunstgeschichte?, München 1983; ed. cons. La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, trad. it. di F. Pomarici, Torino 1990.

[2] G. Didi-Huberman, Phasmes. Essai sur l’apparition, Paris 1998; ed. cons. La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, trad. it. di C. Tartarini, Torino 2011, p. 67.

[3] Uno spostamento analogo è proposto anche in H. Bredekamp, Theorie des Bildakts, Berlin 2010, ed. cons. Immagini che ci guardano, a cura di F. Vercellone, trad. it. S. Buttazzi, Milano 2015, che si appoggia su alcuni spunti di M. Merleau-Ponty e di J. Lacan. Su questo argomento è anche utile la lettura di W.J.T. Mitchell, What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images, Chicago-London 2005, pp. 28-56, ed. cons. Che cosa vogliono le immagini?, trad. it. S. Pezzano in A. Pinotti e A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano 2009, pp. 99-133.

[4] Sull’“interiorità”, con begli esempi anche dall’arte visiva, si veda A. Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Torino 2016.

[5] Sul “sentire” si consiglia A. Masullo, Paticità e indifferenza, Genova 2003.

[6] Confusione che spero non abbia fatto Tomaso Montanari in Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, Roma 2013, pp. 151-152.

[7] C. Tosco, I beni culturali. Storia, tutela e valorizzazione, Bologna 2014, p. 11. Nello specifico, l’inclusione di Auschwitz nella lista l’UNESCO richiama il sesto criterio di selezione: «essere direttamente o materialmente associati con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze, opere artistiche o letterarie, dotate di un significato universale eccezionale».

Pubblicato su “MuseoinVita” | 3-4 | giugno-dicembre 2016