
La collettività sognante non conosce nessuna storia.
Per essa il corso dell’accadere scorre via
come un sempre uguale e sempre nuovo.
Il sensazionale dell’assolutamente nuovo
e dell’assolutamente moderno è infatti una forma sognata
dell’accadere altrettanto quanto l’eterno ritorno di ogni eguale[1].
Dovranno iniziare, prima o poi, i lavori di ripristino e messa a norma antisismica di Palazzo Schifanoia. Dal terremoto del maggio 2012 il tempo se ne è andato in riflessioni, discussioni, progetti e confronti, ma non tutto questo tempo è stato speso invano. Molte cose sono state osservate e approfondite, alcune ipotesi sono state scartate, altre sono affiorate, e finalmente ora tutto sembra prepararsi per affrontare la realtà concreta. Una realtà in fin dei conti straordinaria, vista l’opportunità di ripensare quasi completamente l’allestimento di un museo come quello di Palazzo Schifanoia.
Non è ancora tempo per addentrarci nel dettaglio, e per ora basta sapere che il percorso espositivo sarà ampliato, offrendo così la possibilità di mostrare opere finora conservate nei depositi; che il palazzo “finalmente” avrà un ascensore a disposizione di quanti non sono in grado di raggiungere autonomamente il piano nobile; che verrà allestito un laboratorio didattico dove poter stimolare le infinite curiosità dei più giovani. Ma di questo se ne parlerà a tempo debito poiché queste riflessioni continueranno, con la periodicità della rivista, fino a quando Palazzo Schifanoia non verrà restituito al suo pubblico. Non si tratterà di mettere in cronaca, ma di avviare un possibile confronto, dando spazio a quei pensieri che la materia “museo” nel suo riformarsi porterà in superficie.
Nel momento in cui scrivo, l’approvazione del progetto definitivo da parte della Regione Emilia-Romagna sta seguendo il suo corso, e dunque è una situazione buona per porsi anche le domande più generali.
Tra queste, voglio iniziare con quella più ovvia: “ha ancora senso il museo oggi?”, e siccome a questa non si vuole dare una risposta negativa, ne consegue quasi per inerzia un’altra: “e se sì, qual è il senso di un museo oggi?”.
Saranno anche domande ovvie, ma sono lontane dall’essere banali nel momento in cui ci si guarda attorno, e si scopre che la nostra contemporaneità a questi interrogativi sta già rispondendo in modi che o mettono a rischio l’esistenza dei musei – sottraendo loro le indispensabili risorse – o ne piegano la natura sottoponendoli alle regole del mercato. «Ci sono delle relazioni tra grande magazzino e museo»[2], scriveva Walter Benjamin nella prima metà del secolo scorso avendo in mente il consumismo degli oggetti, ma potremmo dirlo anche noi che abbiamo davanti, oltre a quel tipo di consumismo, pure quello degli eventi, delle emozioni, delle conoscenze…
Se dunque la contemporaneità sta agendo modificando la realtà dei musei, allora porsi quelle due domande non è poi neppure così ovvio.
Oggi i musei debbono fare i conti con una serie di fattori in alcuni casi impensabili soltanto qualche decennio fa. Senza pretendere di esaurire l’argomento, mi sembra indispensabile individuarne per lo meno alcuni tra i più macroscopici.
Innanzi tutto i musei debbono vedersela con una tendenza “contabile”[3] che li sta indirizzando univocamente verso l’ambito del turismo, che non sarebbe un male se il tutto non fosse gestito come qualsiasi “attività produttiva”. Per giunta questa tendenza trova conforto nella necessità di una ricaduta immediata in termini di mercato. Ciò significa in definitiva abbandonarsi all’isteria del breve periodo a scapito del più ragionevole (e redditizio, per quanto difficilmente contabile) investimento in termini sociali e culturali. Sulle ragioni o i torti del mercato (in senso consumistico) non è qui il caso di sprecare parole: giudicare il consumismo un bene o un male non risolve il problema dei musei, ma i musei possono trarre vantaggio comprendendo le dinamiche emotive del consumismo e dirottarle, con il loro potenziale culturale e relazionale, da un processo di mero sfruttamento a un’occasione per stimolare il loro approfondimento, che non riguarda strettamente soltanto l’ambito storico artistico.
Un altro fattore macroscopico lo si trova nel pubblico dei musei: è cambiato, soprattutto dal punto di vista delle aspettative. Con il fenomeno delle “grandi mostre”, iniziato più o meno – almeno in Italia – negli anni Ottanta del Novecento, c’è stato un incremento di interesse nei confronti delle arti visive che ha catalizzato grandi presenze di visitatori non tanto nei musei, quanto per l’appunto nelle esposizioni temporanee. Le stesse – grazie al dinamismo anche mediatico che le caratterizza, alla capacità di concentrare maggiori finanziamenti, al potere di incrementare l’indotto turistico – sono molto presto entrate nel circuito della competizione commerciale usando il canale della spettacolarizzazione. Ora, spettacolarizzare un evento culturale non è una cosa né buona né cattiva, è semplicemente un mezzo per ottenere attenzione. Fatto sta che i musei, se confrontati con le mostre, hanno maggiormente messo in risalto la loro staticità, il vivere all’interno di una dimensione propria, autoreferenziale.
Un altro fattore degno di nota, a parer mio, discende dalla globalizzazione che ha messo in crisi la centralità del pensiero occidentale, che ha sua volta ha reagito irrigidendosi in un progressivo scollamento dalla realtà. Qui il discorso investe la cultura occidentale nel suo insieme e nella sua complessità, e con essa ovviamente anche il museo in quanto sua esplicita espressione[4].
Effetto della globalizzazione è anche la compresenza nel territorio di altre culture, sempre più numerose, che magari parlano la nostra lingua ma hanno un altro orizzonte conoscitivo ed emotivo. Questi altri orizzonti ci dovrebbero interessare affinché possa esistere, accanto al nostro, un differente senso dell’opera d’arte e, dunque, del museo. Ciò significa interrogare diversamente la storia dell’arte partendo da una concezione culturale non più o non soltanto occidentale[5]. Se riuscissimo a farlo, ne trarrebbe giovamento anche la nostra conoscenza del fenomeno artistico e dei suoi rapporti con l’uomo.
“Fare i conti” non significa, in definitiva, “combattere contro”. Significa semmai mettere in discussione i propri principi fondativi e trovare per sé altre ragioni. D’altra parte, le stantie ragioni di sempre non bastano più per difendere l’esistenza dei musei, un’esistenza peraltro piuttosto recente e culturalmente circoscritta.
Le ragioni che hanno sostenuto la conservazione e il mantenimento di queste istituzioni non sono al passo con le esigenze della contemporaneità, e continuare a denunciare le disattenzioni (o le sviste) delle politiche non serve a cambiare la rotta[6]. Ancora una volta non basta giudicare le esigenze della contemporaneità, ma prenderne atto per agire senza patirne l’arroganza, facendo della conservazione non un fine del museo, ma uno dei suoi mezzi.
Uno dei capisaldi dell’estetica che tanto ha permeato di sé, e condizionato, le categorie di buona parte della storia dell’arte, e mi riferisco a Immanuel Kant[7], non riferiva le sue definizioni di bello alle opere d’arte, ma alla natura. Le opere d’arte le considerava invece inerenti a quella “bellezza aderente” che non era né universale, né disinteressata, e perciò vincolata all’utilità. Rifiutarsi di ragionare in termini di “utilità” anche per le opere conservate nei musei, significa lasciare un varco aperto agli appetiti “contabili”.
Occorrono in sostanza altre formule per rinnovare il museo come centro di interesse, ripensarlo, rinvigorirne l’immagine e la funzione con valori che comunque contiene, ma che non sono stati praticati per il semplice fatto che forse ancora non è stato il tempo, o perché forse siamo ancora radicati a posizioni estetiche e storico artistiche che hanno incanalato la concezione dell’arte lungo un tracciato del quale non abbiamo scorto il rinnovamento, in qualche modo già suggerito da alcune ricerche che, guarda caso, si nutrono di interdisciplinarietà rompendo con le rigide categorie accademiche[8].
Per esempio, occorrerà che il museo venga svincolato da tutto ciò che lo afferisce a quel tipo di “spazi altri” che Michel Foucault chiamava eterotopie, e sciolto da una concezione dell’arte che ne limita le funzioni valoriali, oltre a non essere più attuale neppure in riferimento al fenomeno artistico contemporaneo. Ma procediamo per gradi.
Di eterotopia Foucault parla specificatamente in una conferenza radiofonica nel 1966, che riprende nel 1967 in un nuovo intervento, e infine sistema ulteriormente autorizzandone la pubblicazione nella primavera del 1984[9], anno della sua morte.
Si tratta perciò di una categoria che ha attraversato quasi interamente la sua vita, e che si trova disseminata in tutta la sua produzione superando peraltro la riflessione che accompagna i suoi ultimi anni, quando sposta l’attenzione dal potere come assoggettamento al potere come soggettivazione, e dunque ponendosi nella dimensione etica della relazione. er quanto interessante, non è possibile sviluppare in questa sede il temaenza oltanto all’
Foucault definisce le eterotopie in stretta corrispondenza alle utopie: entrambe «hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi e rispecchiati»[10]. Vale a dire che utopie ed eterotopie entrano in relazione con gli altri spazi per contraddirli.
Tuttavia, la somiglianza tra le utopie e le eterotopie si ferma qua. Infatti, se le prime non sono reali e non hanno un luogo, le seconde invece sono una specie di utopia realizzata, e cioè «luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili»[11].
Tra i sei principi messi in causa da Foucault per descrivere le eterotopie, il quarto definisce «le eterotopie del tempo che si accumula all’infinito, come ad esempio i musei, le biblioteche; musei e biblioteche sono eterotopie ove il tempo non smette di accumularsi e di raccogliersi in sé stesso, mentre nel XVII secolo, e fino al termine di esso, i musei e le biblioteche erano l’espressione di una scelta individuale. D’altra parte, l’idea di accumulare tutto, l’idea di costituire un luogo per ogni tempo che sia a sua volta fuori dal tempo, inaccessibile alla sua stessa corruzione, il progetto di organizzare così una sorta di accumulazione perpetua e indefinita del tempo in un luogo che non si sposta, tutto ciò appartiene alla nostra modernità. Il museo e la biblioteca sono eterotopie tipiche della cultura occidentale del XIX secolo»[12].
Dunque: le eterotopie, per quanto realizzate, e cioè concrete, sono comunque utopie, vale a dire legate alla proiezione di una qualsivoglia “idea” di perfezione, un qualcosa di chiuso in sé e in contrapposizione con la dinamicità della vita. In questo ambiente s’inserisce anche il museo, inteso come un luogo del tempo al di fuori del tempo, e penso non sia pleonastico notare che questo saggio di Foucault dedicato alle eterotopie abbia come incipit: «La grande ossessione che ha assillato il XIX secolo è stata, come è noto, la storia»[13].
A questo punto la domanda è: forse che il museo stia “continuando” a sostare nella crisi per l’ostinazione a restare dentro categorie che non sono più funzionali alla comprensione della nostra realtà? Una realtà che non gira più attorno ai cardini imposti dall’Occidente, e che sta mettendo in questione i parametri del nostro sistema culturale, talmente raffinato da funzionare per suo conto, al punto che da strumento cognitivo della realtà si è sovrapposto alla realtà stessa, sostituendola. Non è che la stessa storia dell’arte, su cui poggia il museo, e anche l’estetica siano già in movimento verso un cambiamento di cui il museo, nella chiusura tipica delle eterotopie, stenta ad accorgersi? Se uscissimo dalle categorie positiviste della storia, probabilmente ci renderemmo conto che al museo mancano le fondamenta.
La categoria foucaultiana di eterotopia (che poi è un’esperienza) ha saldi punti di contatto con quegli spazi che Walter Benjamin, in quel suo incontenibile e caleidoscopico pellegrinare tra i passages parigini, chiama “case di sogno”, cioè case senza alcun lato esterno tra le quali inserisce per l’appunto i musei[14].
Sia le eterotopie, sia le “case di sogno”, rappresentano in qualche modo un taglio temporale poiché ciò che vi è conservato viene sospeso dal tempo corrente, sono eterocronie[15]. «Le culture del mondo vengono archiviate nei libri e nei musei. In questo modo vengono conservate, smettendo però di essere vissute», per dirla con Hans Belting, che per altro mette in evidenza la somiglianza tra musei e cimiteri, all’insegna dell’eterotopia intesa come luogo della “cesura temporale”[16].
La dimensione eterotopica penso sia una delle ragioni che trattengono il museo stesso dall’entrare nella contemporaneità, non facendocelo più sentire “al passo con i tempi”. Uno spiraglio per uscire da questa staticità, da questa “sospensione del tempo” che ci immerge in un tempo altro, sembra offrircelo Foucault stesso grazie alla metafora dello specchio, quando ipotizza che tra le eterotopie e le utopie ci possa essere un’«esperienza mediana», che è appunto quella dello specchio.
Lo specchio è un’utopia «poiché è un luogo senza luogo»: in esso «mi vedo là dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie, io sono là dove non sono, una specie d’ombra che mi rimanda la mia stessa visibilità, che mi permette di guardarmi laddove sono assente». Eppure lo specchio è anche un’eterotopia: esiste realmente. «A partire da questo sguardo che in qualche modo si posa su di me, dal fondo di questo spazio virtuale che si trova dall’altra parte del vetro, io ritorno verso di me e ricomincio a portare il mio sguardo verso di me, a ricostituirmi là dove sono»[17].
Se valorizziamo questa “esperienza mediana” in chiave di relazione tra me e il museo (ma anche tra me e le opere in esso contenute), allora usciamo fuori dalla gabbia del museo come eterotopia, ovvero il museo diviene luogo del tempo attraverso il quale posso fare esperienza di me stesso. Per farlo, però, occorre rivedere il concetto di “storia” e, contestualmente, quello di “arte”, consapevoli che storia, arte, storia dell’arte e museo, per quanto con ritmi di formazione differenti, seguono un processo che dal XVI secolo trova la sua realizzazione compiuta nel XIX secolo, e a questo processo siamo rimasti incatenati, nonostante la presenza di voci fuori dal coro che, per quanto in parte ascoltate, vengono trattenute dall’avere una ricaduta nelle riflessioni sul museo.
Assieme alle alternative proprie fornite dalle discipline più pertinenti al museo, ne esistono dunque altre provenienti da ambiti meno consueti, ma non per questo inefficaci per una riflessione che intenda smuovere lo stallo nel quale i musei sono caduti, o evitare che la contemporaneità li svilisca in un puro oggetto di consumo.
Se il museo è un’espressione culturale, deve necessariamente sottostare alle regole della cultura. E la regola prima di una cultura è quella di trasformarsi, di non irrigidirsi nella propria stessa identità. François Jullien, in un suo appassionante libretto, scrive: «Una cultura che non si trasformasse più sarebbe una cultura morta – proprio come si parla di una lingua morta: una lingua che non cambia perché nessuno più la parla; una lingua che si è irrigidita, fissata, perché non serve più»[18]. Pertanto, l’idea che il museo debba rappresentare l’identità culturale di un territorio, è espressione quanto mai pericolosa dal punto di vista “etico” poiché l’identità pone immediatamente il tema della differenza, oltre che essere discutibile nella sostanza: nascere, vivere, morire a Ferrara non significa trovare nel ducato estense una forma di identità: palazzo Schifanoia ha valore in sé o per altro, non certo perché rappresenta l’identità ferrarese.
L’identità è una forma di avvicinamento che nasconde un processo di “assimilazione”, e pertanto «disinnesca in anticipo ciò che l’altro dell’altra cultura [e quella Estense, per nostra fortuna, è una cultura “altra”] può apportare di esterno e di inatteso»[19]. Per scongiurare questo disinnesco, Jullien utilizza il concetto di “scarto”: «lo scarto non ci fa porre un’identità di principio, né risponde a un bisogno identitario; separando le culture e i pensieri, esso apre tra di essi uno spazio di riflessività in cui si sviluppa il pensiero», inoltre «non si tratta di una figura di ordinamento ma di disturbo, con una vocazione esplorativa», infine ci porta a «una auto-riflessione dell’umano»[20].
Se forse non si può modificare la natura eterotopica del museo, probabilmente è possibile far lavorare l’eterotopia in modo differente, scardinando le categorie positiviste che ancora ne regolano il funzionamento interno, quando il mondo esterno sta da tempo (direi da sempre) spingendo per il cambiamento.
/continua sul prossimo numero di “MuseoinVita”/
Note
[1] W. Benjamin, Das Passagenwerk, a cura di R. Tiedermann, Frankfurt am Main 1982; ed. cons. I «passages» di Parigi, a cura di E. Gianni, 4a ed., vol. II, Torino 2010, p. 611.
[2] Op. cit., p. 464.
[3] Preferisco come aggettivo al più comune, ma etimologicamente inesatto, “economico” quello meno nobile (in questo caso) di “contabile”.
[4] Il museo nasce come una delle espressioni del potere, basta ripercorrerne la storia. Come esempio si rimanda a K. Schubert, The Curator’s Egg, London 2000; ed. cons. Museo. Storia di un’idea. Dalla Rivoluzione francese a oggi, trad. it. M. Gregorio, Milano 2004.
[5] Un ottimo esempio lo si trova in H. Belting, Florenz und Bagdad. Eine westöstliche Geschichte des Blicks, München 2008; ed. cons. I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, trad. it. M. Gregorio, Torino 2010.
[6] Un’ottima analisi e preziosi spunti si leggono in F. Donato, La crisi sprecata. Per una riforma dei modelli di governance e di management del patrimonio culturale italiano, Roma 2013.
[7] I. Kant, Kritik der Urteilskraft, Berlin 1790; ed. cons. Critica del Giudizio, trad. it. A. Gargiulo, 4a ed., Roma-Bari 1979.
[8] Cfr. A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano 2009.
[9] Per la conferenza del 1966 si veda M. Foucault, Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati, 3a ed., Napoli 2014, pp. 11-28; per la conferenza del 1967, poi pubblicata nel 1984, si veda M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, 4a ed., Milano 2011, pp. 19-31. A quest’ultima edizione ci riferiremo.
[10] Op. cit., p. 23.
[11] Op. cit., p. 24.
[12] Op. cit., p. 29.
[13] Op. cit., p. 19.
[14] Benjamin, I «passages» cit., p. 455.
[15] Foucault, Spazi altri cit., p. 28.
[16] H. Belting, Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bilwissenschaft, Paderbon 2002-2011; ed. cons. Antropologia delle immagini, trad. it. S. Incardona, 2a ed., Roma 2013, pp. 86-87. L’edizione italiana include una preziosa Introduzione scritta per l’edizione americana del 2011, assente in quella originaria tedesca del 2002.
[17] Foucault, Spazi altri cit., p. 24, anche per le citazioni che seguono.
[18] F. Jullien, L’écart et l’entre, Paris 2012; ed. cons, Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, a cura di M. Ghilardi, Milano-Udine 2014, p. 39.
[19] Op. cit., p.40.
[20] Op. cit., p. 43.
Pubblicato su “MuseoinVita” | 2 | dicembre 2015