… non fù alcuno che fosse per riuscir maggior maestro […] di un’Antonio Randa[1].

Diverse fonti ricordano la presenza nel territorio ferrarese di un artista che ai suoi tempi, il Seicento, era noto e apprezzato per le doti pittoriche ma in seguito venne dimenticato, con ogni probabilità a causa della cattiva fama che costruì intorno a sé. Malvasia arrivò a sostenere che era preferibile smettere di parlarne a causa della sua condotta di vita, il che lo rende, proprio per questo, un personaggio da riscoprire cercando di sollevare, uno a uno, i veli del tempo passato[2].

Al di là del topos letterario dell’“artista maledetto”, assai frequentato dai biografi Sei e Settecenteschi a Bologna come a Ferrara, di Antonio Randa si dice fosse uomo “facinoroso” e unico amico di Giuseppe Caletti detto il Cremonese, altro pittore dissoluto che amava frequentare i “beoni” delle osterie ferraresi[3]. Lo stesso artista ammise, di suo pugno e in giovane età, di aver ucciso un uomo e nell’ultimo dipinto che conosciamo si raffigurò disperato tra le fiamme[4].

La sua personalità artistica è stata introdotta in un intervento di Daniele Benati comparso nel primo numero di questo periodico; mentre con questo scritto intendo approfondire i dettagli della sua presenza nel Ferrarese[5].

Diverse sue opere sono ancora oggi visibili, alcune perché sempre rimaste al loro posto dopo quattro secoli e altre che si stanno riscoprendo, ma nessuna sembra essersi conservata all’interno della città (ex) estense, seppure un discreto numero ne fosse segnalato dalle cronache; possiamo rendergli un risarcimento tardivo ricordando quei lavori perduti e distinguendo quel che fu davvero di sua mano da ciò che invece costituisce un dubbio da chiarire, come due tele custodite tra le antiche mura di Sant’Antonio in Polesine.

Ma iniziamo dai dati certi, avvicinandoci al mare. A Comacchio possiamo tuttora apprezzare le sue costruzioni ampie e il colorito piacevole all’occhio, caratteri che ci raccontano di una formazione in ambito bolognese: allievo tra i primi di Guido Reni, il suo apprendistato venne forzatamente interrotto, tra una presunta minaccia di morte al proprio grande maestro e l’omicidio che, sappiamo per certo, lo fece scappare da Bologna[6]. Il suo apprendistato artistico, per via di questa fuga, si interruppe nel 1613 e, con esso, anche la formazione del suo stile pittorico, il quale in seguito si sarebbe sì evoluto, mantenendo tuttavia per sempre quelle caratteristiche formatesi in gioventù. Questo fatto ci permette, analizzandone le cifre stilistiche, di documentare per suo tramite la qualità delle ricerche dei primi allievi e seguaci dei Carracci – con Ludovico ancor vivo e operante – quando il giovane Reni e i vari Guercino, Massari, Mastelletta andavano maturando le loro poetiche, non esitando a ricordare anche lo scultore Algardi, coetaneo di Randa.

Con un esame comparato delle fonti scritte e iconografiche ho cercato di ricostruire il percorso randiano di arte e di vita, incasellando le sue opere quasi anno per anno: in un viaggio che inizia lungo uno dei percorsi che collega la città felsinea a quella estense, ho seguito l’artista nei suoi spostamenti per arrivare infine nel ferrarese, territorio col quale aveva avuto contatti in gioventù e dove è presumibile pensare che terminò la sua esistenza.

Le date di nascita e morte non sono conosciute, ma possiamo ipotizzare la prima intorno al 1595 in un paese del circondario di Bologna, la cosiddetta “Guardia di Bologna”, mentre la data di morte va posta qualche anno oltre il 1657, in base all’ultima datazione ricordata dalle fonti storiche[7]. Per intendere le opere realizzate nel territorio di Ferrara è opportuno accennare brevemente alla sua formazione e alle tappe geografiche e culturali che Randa toccò, entro un poligono cartografico con ai vertici i territori di Bologna, Modena, Rovigo, Ferrara e Comacchio, con un solo viaggio all’esterno di questo perimetro: rimandi a ognuna di queste esperienze, specie quelle con accenni drammatici, entreranno nella ricostruzione della sua personalità e dei suoi ultimi lavori.

La prima opera che gli viene assegnata dagli storici che probabilmente ebbero modo di conoscerlo (Antonio Masini e, in gioventù, il conte Malvasia) è una pala con San Giorgio e il drago, tuttora conservata sull’altare maggiore della parrocchiale di San Giorgio di Piano, da assegnare al breve periodo nel quale Randa fu nella bottega di Reni (presumiamo 1610-13); una pittura sicura ai limiti della presunzione per essere opera di un giovane, carraccesca nella salda impostazione e nell’illuminazione, dimostrando che, per arrivare a un tale risultato, doveva aver iniziato gli studi artistici già da qualche anno e vedremo quale altro maestro si può ipotizzare.

Segue il trasferimento a Modena, per sottrarsi alla giustizia pontificia e rifugiarsi forse da suoi parenti. Dell’omicidio abbiamo due versioni: da una parte quella citata dall’arciprete Baruffaldi, che appare decisamente burlesca[8]. Oggi però possiamo sapere come lo stesso Randa raccontava gli eventi, leggendo direttamente dal manoscritto col quale, in terza persona, chiese un salvacondotto al duca Cesare d’Este, nemico giurato del Papa[9].

Avendo ottenuto il permesso per rifugiarsi nelle terre dello Stato Estense, tra il 1614 e la fine del secondo decennio avrebbe quindi lavorato a Modena, ma qualche sua opera arrivò anche a Ferrara; tre suoi dipinti erano infatti ricordati in abitazioni private ferraresi, oggi non rintracciati ma annotati negli inventari di quelle collezioni: nel palazzo della famiglia Saroli-Lombardi era visibile una «Santa Maria Maddalena nel deserto», mentre all’interno della collezione Barbi-Cinti erano custoditi una «Apparizione di Nostro Signore a S. Scolastica in tela oblunga» e soprattutto un «Ecce Homo mezza figura in tela oblunga» che, datato 1616, costituisce la prima data certa di un’opera randiana nonché il motivo per includere tale piccolo gruppo di tele ferraresi in questo periodo della sua vita[10].

Possiamo avere un’idea dello stile che caratterizzava le tele perdute facendo riferimento a una sua opera riconosciuta di recente, che va assegnata all’epoca di cui stiamo parlando e a un territorio contiguo: si tratta di una Sacra Famiglia servita dagli Angeli attualmente collocata nelle stanze private dell’Arcivescovado di Milano, originariamente dipinta per il convento dei Cappuccini di Concordia sulla Secchia (fig. 1). Siamo davanti a una iconografia inusuale trattata con una pittura piuttosto incerta, chiaramente giovanile; oltre a evidenti rimandi a Reni e Massari, la luce netta e colorata dei panneggi richiama un possibile, precedente maestro di tradizione manierista: la chiarezza compositiva potrebbe suggerire il nome di Bartolomeo Cesi, nella cui bottega, non a caso, si formò anche lo stesso Lucio Massari[11].

Fig. 1, Antonio Randa, Sacra Famiglia servita dagli angeli, 1614-22, Milano, quadreria dell’Arcivescovado, deposito della Pinacoteca di Brera, già convento dei Cappuccini, Concordia sulla Secchia (Mo)

Fig. 1, Antonio Randa, Sacra Famiglia servita dagli angeli, 1614-22, Milano, quadreria dell’Arcivescovado, deposito della Pinacoteca di Brera, già convento dei Cappuccini, Concordia sulla Secchia (Mo)

Risolta in qualche modo la pendenza giudiziaria, ritroviamo Randa a Bologna intento a dipingere nello studio di Massari, nel momento in cui questi stava ultimando due dipinti per la Certosa di Ferrara. Gli storici, infatti, concordano nel ricordarlo allievo anche di questo maestro, per poi diventarne collega: «Andò dal Signor Francesco Albano e Lucio Massaro che tenevano stanza insieme al Casino de’ Poeti […] lavorava allora l’Albani quel Battesimo di S. Giorgio e Massaro un Miracolo di un Santo, una vipera mordente ecc, che andò fora per una chiesa dei Certosini»[12]. Nel ciclo di dipinti di Massari ritroviamo appunto un miracolo di Sant’Antelmo che resuscita un uomo morso da una serpe.

Di questo periodo possiamo ammirare ben tre pale documentate come opere di Randa: nella piccola frazione di Gherghenzano, nell’oratorio bolognese di Santa Maria della Vita e a San Giovanni in Persiceto. Quindi il giovane artista passò – in quel difficile 1630 della peste manzoniana – prima a Modena (con affreschi perduti nel Palazzo Ducale), poi a Rovigo.

In questa città si costruì una certa fama e lo storico settecentesco Francesco Bartoli elenca puntigliosamente i dipinti eseguiti per nobili e prelati in un periodo complessivo di 10 anni, tra il ‘34 e il ‘44, ma in due distinti periodi. La prima permanenza culminò col suo capolavoro, un Martirio di Santa Cecilia purtroppo perduto, ma di cui abbiamo oggi a disposizione il suo pendant, un’altra Santa Cecilia che l’artista immortalò mentre cantava e suonava l’organo[13].

Randa aprì così la via del Veneto ad altri artisti bolognesi che lo seguiranno a breve. Inoltre da questo momento la sua pittura conoscerà un improvviso progresso qualitativo, con l’inserimento di accenti veneti in quello stile saldamente impostato sulla lezione schematica e naturalista di Massari, facendo però convivere accenti di un personalissimo realismo epidermico con brillanti componenti classiciste assunte da Reni.

Il periodo rodigino fu interrotto per una importante commissione: occorreva proseguire i lavori che Lucio Massari aveva svolto in un altro luogo certosino, seguendo le commissioni di quest’ordine religioso (dopo Bologna e Ferrara), ovvero nella Certosa del Galluzzo: Antonio Randa, riconosciuto come principale allievo di questo artista nel frattempo venuto a mancare, decorò la cappella dedicata a San Bruno[14]. Nel ritorno dalla Toscana, l’artista si fermò nuovamente in Emilia: prima a Bologna, dove la prestigiosa famiglia Hercolani gli commissionò una tela davvero splendida, che narra la visita di Giunone nella grotta di Eolo[15]. Il pittore passò poi da Modena, lasciando un Gesù Bambino dormiente denso di riferimenti simbolici (ora nelle Gallerie Estensi).

Tornato a Rovigo, il pittore bolognese realizzò un prestigioso telero, il primo della serie dei podestà veneziani che adornano completamente la “Rotonda” e che si dimostrerà rilevante per il racconto delle sue vicende artistiche. Dietro al podestà Morosini, infatti, spicca in grandi dimensioni – sebbene in penombra, quindi con finta modestia – lo stesso artista: compare sulla scena ma non partecipa all’evento, piuttosto se ne discosta avvicinandosi a noi, spettatori viventi, e fissandoci col suo sguardo denso di realtà; la firma apposta sotto la verticale di questa figura è indicativa come prova della sua identità, che già Bartoli fondatamente ipotizzava[16].

Fig. 2, Antonio Randa, Glorificazione del podestà Pietro Morosini, 1644, particolare con l'autoritratto dell'artista, Rovigo, Santa Maria del Soccorso (la “Rotonda”)

Fig. 2, Antonio Randa, Glorificazione del podestà Pietro Morosini, 1644, part. con l’autoritratto dell’artista, Rovigo, Santa Maria del Soccorso (la “Rotonda”)

Randa si ritrasse nella posa che teneva mentre si dipingeva allo specchio, solamente senza raffigurare il pennello, e con la stessa moda “alla spagnola” e lo stesso narcisismo che riconosciamo negli autoritratti tipici di altri artisti di questa epoca, da Caravaggio, a Bernini, a Velázquez (fig. 2)[17].

Tra lo stesso 1644 in cui firmò il telero e il ’48 Randa venne chiamato a spostarsi nuovamente, arrivando in territorio ferrarese. Aveva lavorato in passato per una Confraternita del Suffragio a San Giovanni in Persiceto e questo dovette agevolargli una doppia commissione per la corrispondente chiesa di Comacchio.

Ben due dipinti dell’artista sono conservati all’interno dell’Oratorio del Suffragio delle anime purganti e di Sant’Antonio, eretto dalla Pia Unione delle anime del Purgatorio proprio in quel 1644[18]. Le tele sono collegate tra loro sul piano della simbologia cattolica e del culto per le anime del Purgatorio praticato in quel contesto.

Nel primo dipinto, una Crocifissione, i defunti sono rappresentati dalla figura di Nicola da Tolentino, loro protettore, mentre la Maddalena in veste rossa mette in pratica l’esortazione di Antonio ad amare la croce di Cristo (fig. 3).

Fig. 3, Antonio Randa, Crocifissione con Santa Maria Maddalena e San Nicola da Tolentino, post 1644, Comacchio, Oratorio del Suffragio delle anime purganti e di Sant’Antonio

Fig. 3, Antonio Randa, Crocifissione con Santa Maria Maddalena e San Nicola da Tolentino, post 1644, Comacchio, Oratorio del Suffragio delle anime purganti e di Sant’Antonio

Sotto quel cielo plumbeo tutto il dipinto ispira una funerea tristezza, dipendente dal clima della Controriforma; non basta la grande chiazza cromatica sfoggiata dalla Maddalena per scaldare la scena, perché il rosso della sua veste, povero di una componente gialla, trasmette una sensazione di freddezza. Osservando composizione e resa pittorica, può sembrarne dubbia l’attribuzione, considerando le differenze con gli altri dipinti di Randa che conosciamo e della cui paternità siamo certi: il cromatismo delle carni, crudo e innaturale, il disegno rigido che si impone sulla materia pittorica modellando e quasi incidendo gli angeli e Cristo, che ricorda quello di Donatello all’altare del Santo, a Padova. Potrebbe essere presente una certa dose di ridipinture che avrebbero alterato anche severamente la lettura di questo dipinto, così come era stato per la tela di Gherghenzano[19].

Randa, tuttavia, si riconosce davvero in alcune parti ben distinte, come nel modellato delle mani e del viso del santo e nella naturalezza dell’abbraccio della santa, oltre che nelle pose schematiche degli arti. Può darsi che, in questo lavoro tardo, eccedendo nella sicurezza di una consolidata professionalità o per semplice fretta, Randa abbia fatto scarso uso di osservazioni dal vivo, semplificando l’intero dipinto con una costruzione mentale, irrigidita in uno schema che non può far avvertire quel naturalismo carraccesco che pur aveva a disposizione nel proprio bagaglio artistico, mentre la scioltezza classicista non gli è mai interamente appartenuta.

L’altro dipinto è parte di un trittico, dove i pannelli laterali sono attribuiti senza sicurezza a Cesare Mezzogori, mentre emerge chiaramente la mano di Antonio Randa nella grande pala centrale, e lo troviamo di nuovo a raffigurar se stesso in una tela di pregevole fattura. A differenza di quella precedente, che negli scorsi anni era stata spostata di collocazione a Porto Garibaldi, questa è ancora oggi sull’altare principale dell’oratorio.

L’artista bolognese ha scelto di visualizzare un’apparizione sacra che sembra invadere lo spazio di una chiesa, in un turbinio di nuvole e angeli, uno dei quali porta in alto l’anima della Madonna (fig. 4). Gesù bambino, mentre siede sulle ginocchia della madre, cerca di divincolarsi dal suo abbraccio per protendersi verso sant’Antonio, supplicante un intervento in favore delle anime del Purgatorio. Maria trattiene il figlio con un atteggiamento diffuso nella letteratura artistica, che simboleggia la volontà di proteggerlo dal suo futuro sacrificio. Nel mentre, il santo portoghese versa acqua sulle anime dei defunti, relegati nella parte bassa come se si trovassero sotto la base dell’altare, immersi nel fuoco – ma un anelito di speranza è rappresentato da un angelo che si lancia con enfasi verso di loro, per afferrarli e trarli in alto.

Fig. 4, Antonio Randa, Madonna col Bambino, Sant’Antonio da Padova e le anime del purgatorio, post 1644, Comacchio, Oratorio del Suffragio delle anime purganti e di Sant’Antonio

Fig. 4, Antonio Randa, Madonna col Bambino, Sant’Antonio da Padova e le anime del purgatorio, post 1644, Comacchio, Oratorio del Suffragio delle anime purganti e di Sant’Antonio

L’atto di versare acqua sui defunti (come “suffragio”, quindi “soccorso” alle anime) rappresenta sicuramente una precisa richiesta da parte della committenza, seguendo la tradizione locale che legava il culto dei morti con quello per sant’Antonio. In questo dipinto vediamo il santo utilizzare l’acqua come refrigerio; sappiamo che la Chiesa considera un dogma la trasformazione dell’acqua in sangue durante la messa, per cui quella che vediamo è simbolica del sangue versato da Cristo per redimere i peccati. Esiste poi un altro significato sottinteso – più prosaico – che scaturisce dalle polemiche sorte all’epoca in merito alla gestione di questa confraternita, la quale, con questa immagine fortemente suggestiva, intendeva sottolineare come le donazioni in denaro raccolte nel corso delle messe sarebbero state devolute per la cura delle anime, grazie all’acqua benedetta[20].

Passando all’analisi pittorica, viene naturale ammirare l’illuminazione tipicamente bolognese, che costruisce un vero e proprio “sentimento del luogo” alla maniera di Ludovico Carracci, ravvivata con cromatismi più ricchi e brillanti, appresi da Randa nel corso della sua permanenza in territorio veneto.

Le luci, le ombre, gli spazi e le figure sono attentamente collocati in modo da legarli tra di loro in uno schema di relazioni; rispetto al dipinto precedente, qui tutto viene fuso in un sentimento di religiosità naturale.

Elena Iannone mette giustamente a paragone il dipinto di Comacchio con quello di tema simile a San Giovanni in Persiceto. A parte la sostituzione dell’intercessore – Gregorio Magno al posto di sant’Antonio – il pittore modifica sensibilmente il ruolo dell’angelo rivolto verso il Purgatorio; in entrambe le tele svolge una funzione strutturale dividendo gli spazi, ma a Comacchio un leggero scostamento del braccio sinistro è sufficiente per creare uno scatto metaforico in più: indica ai defunti la fonte della loro salvezza, Maria e Gesù.

Da un punto di vista compositivo si può dire che Randa sia qui impegnato ad armonizzare con nuova scioltezza i suoi moduli stilistici. Si veda in particolare la costruzione in diagonale, dove il santo in ginocchio crea la linea di forza predominante, insieme al corpo e alle braccia dell’angelo: quest’ultimo, quasi ricalcato su quello di Persiceto (del quale il pittore avrà conservato gli schizzi se non anche il “cartone” preparatorio), con i riverberi delle fiamme che arricchiscono la cromia dei suoi corposi drappi, si getta a capofitto verso le anime, realizzate con maggior cura rispetto a quelle di Persiceto, che infatti non si possono riferire alla mano dell’artista. Tornano gli elementi architettonici in grande scala che formavano l’impalcatura scenica nei dipinti di Bologna e Rovigo e la semplice costruzione geometrica del santo riporta Randa sia alla chiarezza compositiva che lui stesso aveva dimostrato nell’Oratorio della Vita, che a diverse opere dei suoi maestri. Lo schema che pone in evidenza la diagonale è evidentemente lo stesso utilizzato da Tiziano, mutuato da Reni giovane e da altri bolognesi che seguivano i consigli dei Carracci nello studio dei veneti, come Tiarini e Cavedone.

L’angelo “in picchiata”, figura importante e di forte impatto, viene differenziato da Randa rispetto a quelli dipinti da Lucio Massari, che li raffigurava in modo semplice e dimesso, con un abbigliamento ridotto all’essenziale. Quasi che Randa volesse porsi in rivalità col suo vecchio maestro, puntando l’accento e arricchendo pittoricamente queste creature celesti che sembrano il suo “pezzo forte” e hanno accompagnato il corso della sua carriera, forse da quando lavorava come apprendista alle tele di Reni e Massari.

Nei dipinti di questi maestri non sono stati finora individuati quegli interventi dell’allievo che devono esserci necessariamente stati, ad esempio nei putti in secondo piano in tante tele di Guido Reni. Riguardo gli sfondi di Massari, si può forse ravvisare una stessa mano nei cavalieri del telero di Rovigo di Randa e in quelli che si scorgono nello sfondo di due dipinti del suo maestro: nell’Andata al Calvario, ora depositata in San Petronio a Bologna e un tempo nella Certosa felsinea e nel Sant’Ugo che libera un indemoniato, l’altra delle tele già ricordate nella chiesa ferrarese di San Cristoforo alla Certosa. Sappiamo che gli allievi di pittura non seguivano una vera e propria scuola – a parte l’Accademia dei Carracci, dove venivano organizzate anche lezioni teoriche ed esercitazioni creative – ma aiutavano concretamente i loro maestri, specie in questi casi: Guido Reni aveva da portare avanti le sue prime importanti commissioni, contemporaneamente e in luoghi distanti, mentre Lucio Massari era noto per dedicare poco tempo ai suoi lavori, impegnato com’era in lunghe battute di caccia. Nella bella tela di Comacchio gli angioletti in secondo piano e in penombra richiamano nel modellato e nelle pose movimentate quelli presenti in tanti dipinti di Reni, mentre vicini a Massari sono gli angeli dall’aspetto adolescenziale, che ricordano nella loro impostazione anche le sculture di Alessandro Algardi.

La forma delle nuvole è quella consueta e riscontrabile in altre opere, con i bordi in evidenza (si potrebbe quasi pensare che l’artista intendesse con questo citare il proprio nome, dal momento che “orlo” è uno dei significati del termine “randa”). Qui le nubi entrano in un ambiente chiuso, accompagnando l’ingresso dei personaggi divini nella chiesa del santo.

L’anima di Maria sorretta da un angelo, che più propriamente ricorre in tutte le rappresentazioni della sua morte, vuol forse ricordare la promessa di un futuro migliore attraverso la fede: il Paradiso che attende sia i vivi che gli abitanti temporanei del Purgatorio. Questo piccolo brano è abbozzato con un tipo di pittura nuova per Randa, fatta di impasti corposi, con l’essere divino che si fa tutt’uno con le nubi, svanendo nella luce dorata grazie a pennellate tipicamente venete che a queste date, a Bologna – tenendo a mente il suo luogo di formazione – potevano essere appannaggio solamente del Mastelletta, artista notevole del quale non è ancora stato pienamente riconosciuto il valore pittorico, che travalica il classicismo bolognese.

Anche la Madonna, in una posa ben costruita e bilanciata e, allo stesso tempo, colta in un atteggiamento naturale volto a sostenere il movimento del figlio, presenta fattezze differenti da quelle utilizzate in precedenza da Randa, con un volto più pieno e rotondo nelle guance tornite (la modella, quindi, non è più quella dei dipinti precedenti). Grazie a una felice invenzione, il pittore le fa reggere con grande umanità il piede del bambino: un gesto che le fedeli dovevano sentire vicino alla loro esperienza quotidiana. Questo gruppo si può dunque vedere, ricordando Francesco Arcangeli, come un esemplare punto di equilibrio tra le due componenti dell’arte emiliana-romagnola: l’elegante classicismo raffaellesco “riscaldato” dal vivo naturalismo dei Carracci[21]. Antonio Randa arrivò a rivaleggiare, a questo punto della sua carriera, con la tenerezza delle Madonne di Raffaello e di Ludovico, che sono tra le poche donne della storia dell’arte ad apparire vere nella loro umanità e non come immagini stereotipate[22].

Ma l’artista bolognese aveva ancora una freccia da giocare per innalzare il livello qualitativo di questa pala, grazie a un vero e proprio colpo di scena.

Quando mi trovai a fotografare questo dipinto, col cortese permesso della Curia di Ferrara, c’era un volto tra le fiamme che mi colpiva e che sentivo di dover riprendere con scatti ravvicinati pur senza capire, sul momento, il motivo di questa suggestione. Soltanto dopo alcuni giorni mi colse un’improvvisa intuizione e riconobbi chiaramente di chi si trattava. Scrutando tra le anime dei defunti, in effetti, un personaggio si distingue per la sua presenza fisica, per il forte realismo e la drammaticità dell’espressione. La figura è in evidenza, ma un forte controluce lo relega nell’ombra del secondo piano, come volesse esser presente, ma senza disturbare la lettura dell’evento sacro: i tratti del viso, la barba, i baffi… la somiglianza con il personaggio in disparte nel telero di Rovigo, terminato pochi mesi prima di questo dipinto, porta davvero a pensare a un altro autoritratto del pittore, qui in cerca della salvezza per la propria anima, dopo l’omicidio in giovane età e gli altri eccessi della sua esistenza (fig. 5).

Fig. 5, particolare di fig. 4, autoritratto dell'artista

Fig. 5, particolare di fig. 4, autoritratto dell’artista

Si tratta di un notevole pezzo di bravura in chiave drammatica: una tale, tragica autorappresentazione fa compiere un ennesimo e deciso balzo di qualità alla poetica di Randa, il quale vuole qui porsi in dialogo con illustri precedenti, come Michelangelo (nel Giudizio Universale) e Caravaggio (nel David con la testa di Golia), questo pure autore di un omicidio e del quale Randa doveva essere venuto a conoscenza. Torniamo alla fama che riportano di lui le antiche cronache e riscontriamo analogie con l’immagine che ci ha lasciato di se stesso in questa opera: era considerato «altiero»[23] e infatti lo troviamo paragonarsi nientemeno che a Caravaggio; si racconta d’altra parte che abbia voluto alla fine ravvedersi per le condotte sregolate della sua esistenza, «avendo vestito egli negli ultimi anni di sua vita l’abito di monaco cassinense»[24]; anche se su questa scelta di farsi benedettino non abbiamo prove (probabilmente è frutto di uno scambio con la biografia di un altro artista), rimane l’evidenza che Randa volle porsi tra le anime brucianti del Purgatorio; ebbe in ogni caso contatti con l’ordine benedettino, perché sappiamo che dipinse una tela con «Alcuni santi benedettini» (nella chiesa ferrarese di San Benedetto, opera oggi non individuabile)[25].

In questo periodo il tema della liberazione delle anime del Purgatorio viene affrontato da altri artisti emiliani: è da ricordare un dipinto, questa volta di soggetto identico a quello di San Giovanni, conservato a Bologna nella chiesa di San Paolo Maggiore e opera del Guercino: successivo a questo e risalente al 1646-47, compaiono gli stessi protagonisti del dipinto di Randa, con altri esiti stilistici. Mentre si può essere certi che Guercino conoscesse la prima tela di Randa con questo soggetto –  posta nella chiesa principale di San Giovanni in Persiceto, paese vicino a Cento dove Guercino nacque e abitò – è invece difficile che abbia avuto l’opportunità di vedere la successiva pala posta in opera a Comacchio. In effetti è possibile notare delle somiglianze tra le pose delle anime dipinte da Guercino e quelle nella pala di Randa a San Giovanni in Persiceto (in realtà non dipinte da lui ma al massimo abbozzate) e nessuna tangenza con quelle a Comacchio.

Le altre sue opere che le fonti documentarie ricordano a Ferrara e nel circondario, e che fino a oggi non sono state rintracciate, sono prive di datazioni di riferimento: possiamo supporre che la permanenza di Randa in questa città vada collocata nell’ultimo periodo della sua carriera, subito dopo la commissione per Comacchio, che oggi come allora era parte della diocesi ferrarese. Tale soggiorno deve poi esser stato agevolato dai contatti che ebbe con questo ambiente nella sua gioventù – come visto nei documenti relativi a collezioni private – e dai rapporti che il suo maestro Massari aveva instaurato con la Certosa di Ferrara, per la quale aveva realizzato i dipinti ricordati nel citato saggio di Benati[26].

Tutti gli storici ferraresi che scrissero tra il Seicento e il Settecento ricordano i suoi dipinti, da Brisighella a Baruffaldi (questi in particolare era aggiornato su eventi e artisti felsinei in quanto manteneva contatti epistolari con i bolognesi Orlandi e Zanotti), fino a Cesare Barotti, Giuseppe Antenore Scalabrini e Antonio Frizzi[27].

In particolare, veniamo a sapere che Randa eseguì un dipinto, allora assai noto perché ricordato in tutte le guide, con L’apparizione della Madonna a san Filippo Neri per la chiesa di Santo Stefano: «Entrando in chiesa, il primo altare è dedicato a S. Filippo Neri tolto dai ferraresi protettore sopra le acque. Il suo quadro rappresenta il Santo vestito degli abiti sacerdotali, in atto di voler celebrare, apparendogli la B. Vergine Maria col Figlio nelle braccia: il suo pittore fu Antonio Randa della scuola di Guido Reni»[28].

Questa tela, purtroppo, venne distrutta in occasione di un bombardamento aereo nel 1944. L’altare, compreso il dipinto, era stato realizzato «a spese del Pubblico di Ferrara»[29]; si trattava quindi di una commissione importante, cara alla devozione popolare, tenendo conto della considerazione che la popolazione riservò al nuovo santo (canonizzato nel 1622), affidandogli la difesa della loro città dai pericoli delle inondazioni. Doveva anche essere un dipinto di alto livello artistico, avvicinandosi alla splendida pala che Randa ha lasciato nella Certosa fiorentina, dove la Madonna col Figlio appare a san Bruno e qui a Filippo Neri, seguendo modelli di Lucio Massari che verranno ripresi dal Guercino[30].

Brisighella riporta un altro dato importante relativo l’affidamento della gestione di questa chiesa all’ordine dei Filippini, nell’anno 1657: è a partire da questa data che i religiosi della “congregazione de’ preti dell’oratorio di S. Filippo Neri” arricchiscono la chiesa con dipinti dedicati alla figura del loro fondatore. Quindi anche il dipinto di Randa deve risalire a una data successiva e questa informazione costituisce l’unica fonte cronologica a noi nota sulla sua presenza a Ferrara, ricordata da tanti dipinti (perduti) ma privi di datazione; costituirà, allo stesso tempo, l’ultimo riferimento per un Randa ancor vivo e attivo. Alcuni storici indicano la sua morte nel 1650, ma per pura ipotesi non suffragata da alcun dato, evidentemente non avendo trovato altre citazioni relative a Randa oltre questo periodo.

Fig. 6, Antonio Randa?, San Francesco di Sales approva la regola di Giovanna da Chantal, prima metà del XVII secolo, Ferrara, Santo Stefano

Fig. 6, Antonio Randa?, San Francesco di Sales approva la regola di Giovanna da Chantal, prima metà del XVII secolo, Ferrara, Santo Stefano

Nella stessa chiesa è conservato un dipinto con San Francesco di Sales che approva la regola di Giovanna da Chantal (fig. 6) e su questa opera si hanno pareri discordanti: Giovanni Sassu ha proposto di considerare il nome di Randa[31], mentre Daniele Benati lo esclude, tenendo conto della costruzione complessiva e dei volti, sebbene gli atteggiamenti di mani e braccia ricordino Randa fin dall’Oratorio di Bologna, passando per la Santa Caterina del Galluzzo e arrivando al Crocefisso di Comacchio. Per valutare in modo corretto questo dipinto sarebbe necessario un restauro, dato che la condizione attuale della tela ne rende molto difficoltosa la lettura: è assai sporca e non più in tensione, coi riflessi di luce sulla superficie pittorica ondulata e annerita, tutti elementi che impediscono una visione coloristica e complessiva.

Brisighella descrive poi un altro dipinto nella chiesa di San Francesco: «Il quadro a oglio sopra il sesto altare figura S. Diego nel mezzo de’ SS. Francesco e Bernardino, il qual S. Diego con l’oglio della lampada mostra di dar luce ad un cieco. Il suo pittore credesi essere stato Antonio Randa bolognese»[32].

Questo dipinto non è stato finora identificato ma, dalla descrizione del soggetto, possiamo dedurre che Randa doveva aver creato un particolare effetto luministico, non individuabile negli altri suoi dipinti che conosciamo.

In Santa Chiara delle Cappuccine Brisighella ricorda un altro Randa: «Dentro ‘l cancello del presbiterio dalla parte laterale dell’altar maggiore è un gran Crocifisso di rilievo in legno intagliato nella città di Padova, e donato a questa chiesa da un pio benefattore. In questo sito era un quadro con la Fuga in Egitto di Maria Vergine dipinto da Antonio Randa»[33].

Questo dipinto non è più identificabile e lo stesso scrittore, per qualche motivo, ne parla al passato, mentre il settecentesco crocifisso ligneo è ancora al suo posto. Un indizio sulla sua sorte può arrivare dalla notizia che le suore di Santa Chiara affidarono alcuni loro dipinti alle Scuole Pie e ad altri Conservatori: nonostante queste opere siano ora conservate nei depositi dei Musei Civici, la Fuga in Egitto non è stata trovata.

Anche in Santa Maria della Consolazione era presente un lavoro del pittore bolognese: «Al quarto altare vedesi Maria Vergine addolorata, dinnanzi alla quale sta orando S. Filippo Benizio, colorito da Antonio Randa della scuola di Guido Reni»[34].

Nella chiesa sono presenti altri dipinti raffiguranti questo santo, ma quello di Randa non è rintracciabile.

Nella descrizione della chiesa di Santa Libera troviamo invece una «Madonna col Bambino e i santi Francesco da Paola e Libera» che non sembrava di gran livello: inizialmente considerata opera di Randa, venne in seguito assegnata ad altro artista minore[35].

In seguito alla morte di Brisighella avvenuta nel 1710, la guida artistica di Ferrara che stava scrivendo pervenne, in forma di manoscritto, nelle mani di Girolamo Baruffaldi, il quale rivide tutte le informazioni, le corresse, le aggiornò e aggiunse descrizioni dei paesi del contado ferrarese. Per questo, è alla sua mano che si deve un’altra citazione su Randa, all’interno della descrizione della chiesa dedicata a Santo Stefano, Primo Martire, nel paese allora chiamato Massa Superiore e oggi Castelmassa: «L’altare di S.Francesco ha il quadro dipinto dal Randa scolaro di Guido Reni»[36].

Fig. 7, Antonio Randa?, San Francesco che riceve le stimmate, prima metà del XVII secolo, Castelmassa (già Massa Superiore), Arcipretale di Santo Stefano

Fig. 7, Antonio Randa?, San Francesco che riceve le stimmate, prima metà del XVII secolo, Castelmassa (già Massa Superiore), Arcipretale di Santo Stefano

Questo dipinto è ancora nel luogo indicato da Baruffaldi (fig. 7) ma è di dubbia autenticità, per l’uso dei colori eccessivamente vicini alla maniera di Guercino e mai utilizzati in questo modo dal pittore bolognese, oltre che per la posa del santo, differente da quelle utilizzate nei suoi dipinti. Tuttavia un certo atteggiamento rigido si può riscontrare in altri dipinti dove Randa aveva dipinto figure umane probabilmente a memoria, senza modello o appoggiando delle vesti su un supporto di legno o creta – e questo potrebbe essere il caso, per una commissione di non grande importanza e portata a termine velocemente.

Seguendo altre curiosità che aleggiano intorno a questo artista, ci ritroviamo lungo la stessa strada che porta da Ferrara a Mantova, ma questa volta nel paese di Ficarolo, dove si trova una grande chiesa dedicata a Sant’Antonino Martire, colpita parzialmente dal terremoto del 2012. Qui è presente un dipinto ricordato da Baruffaldi come opera di Ercole Sarti (detto “Il Muto da Ficarolo”) che raffigura i «Santi Rocco e Sebastiano in adorazione della Madonna col Bambino» e derivato in qualche modo dall’opera o dallo stile dell’artista protagonista di questo scritto, dato che lo storico ferrarese ricorda quel pittore locale come «emulo del Randa».

Veniamo quindi a occuparci di aspetti che devono essere ancora chiariti e che meritano particolare attenzione.

Fig. 8, Giambettino Cignaroli, Trinità con San Benedetto, Sant’Antonio Abate e Beata Beatrice d’Este, inizio del XVIII secolo, Ferrara, Sant’Antonio Abate in Polesine

Fig. 8, Giambettino Cignaroli, Trinità con San Benedetto, Sant’Antonio Abate e Beata Beatrice d’Este, inizio del XVIII secolo, Ferrara, Sant’Antonio Abate in Polesine

L’antico convento di Sant’Antonio Abate, più noto come Sant’Antonio in Polesine, è il più citato in riferimento alle opere ferraresi di Randa: le guide della città gli attribuiscono un dipinto collocato nella chiesa esterna, distinta dal resto del complesso destinato a suore di clausura (fig. 8). Brisighella fu il primo autore ad attribuirlo a Randa e così scrive: «L’altare della SS.ma Trinità così maestosamente dipinta è opera d’Antonio Randa»[37].

Il dipinto in questione, di alta levatura, era in origine collocato sull’altare laterale di destra, mentre ora risulta in bella evidenza sull’altare maggiore della chiesa esterna per sostituire una pala del Garofalo portata a Brera in seguito alle vicissitudini napoleoniche; le cornici architettoniche di questi altari furono di conseguenza adattate o rifatte dopo il 1796, quando il monastero venne temporaneamente chiuso e i due altari barocchi laterali furono trasferiti nella chiesa di Ficarolo, appena citata[38].

Questa attribuzione sarà confermata dalle guide scritte successivamente[39], ma oggi abbiamo a disposizione una prospettiva storica e artistica molto più ampia e possiamo facilmente constatare che il dipinto in questione appartiene a un’epoca e a una scuola artistica diverse.

Se l’atteggiamento delle figure ricorda molto da vicino Randa, la luce tersa e le ombre schiarite non coincidono con i suoi dipinti. Critici recenti[40] hanno giustamente escluso un suo intervento e osservando questa tela da distanza ravvicinata si apprezza effettivamente una inequivocabile pittura del Settecento veneto; per questo motivo si può, semmai, ipotizzare una completa ridipintura nel corso del XVIII secolo da parte di un altro artista su un originale di Randa, considerando la stesura non uniforme della pellicola pittorica che si può apprezzare osservandola in radenza.

Gli atteggiamenti di diverse figure, infatti, rimanderebbero al pittore bolognese: Antonio Abate è inginocchiato come la rispettiva figura nell’Oratorio della Vita di Bologna (a sua volta derivata da una tela di Passerotti), Beatrice d’Este è vicina alla Caterina della Certosa del Galluzzo, il gruppo divino è una variante di quello nella stessa pala toscana. Cattura l’occhio un volto, evidentemente ritratto dal vivo, che spunta dietro un chierico moro: che si tratti di un ricordo del volto del vecchio Randa, autore della versione originale di questa tela, forse rifatta perché danneggiata, magari da una alluvione?

Daniele Benati ritiene che sia opera di Giambettino Cignaroli, data la notevole vicinanza stilistica con questo artista, mentre Giovanni Sassu lo esclude per una mancanza di concordanza tra le date, visto che Brisighella, primo storico che citò questo dipinto, morì nel 1710; Cignaroli, artista veronese, nacque nel 1706, ma il suo tratto pittorico è ben riconoscibile. Come conciliare l’evidenza stilistica con la certezza delle date?

Si possono immaginare alcune spiegazioni, a sé stanti o anche concomitanti: il dipinto poteva essere originariamente di Randa e ridipinto da Cignaroli; oppure Brisighella poteva riferirsi a un’altra tela che, in ogni caso, non pensiamo possa essere di Randa.

Fig. 9, Antonio Gherardi, Cristo in pietà sorretto da angeli, seconda metà del XVII secolo, Ferrara, Sant’Antonio Abate in Polesine, clausura

Fig. 9, Antonio Gherardi, Cristo in pietà sorretto da angeli, seconda metà del XVII secolo, Ferrara, Sant’Antonio Abate in Polesine, clausura

Nella stessa chiesa ferrarese risulta infatti conservato un altro dipinto, pure questo di ottima fattura ma attualmente non visibile, perché nella zona di clausura; vi si riconosce una Deposizione di Cristo o, più esattamente, un Cristo in pietà sorretto da angeli ma, per la presenza di Dio e dello Spirito Santo, potrebbe considerarsi anche come una Trinità (fig. 9). Per questo motivo poteva essere scambiato con la tela precedente, tanto che nell’archivio della Soprintendenza bolognese figura come opera di Antonio Randa, mentre la disposizione delle figure e la trattazione pittorica non coincidono con i dipinti del pittore bolognese. Benati mi suggerisce di collocare questa tela nell’ambito artistico romano proponendo, poi, specificamente il pittore reatino Antonio Gherardi (Rieti 1638 – Roma 1702): le pose delle singole figure e la coesione del gruppo mostrano notevoli tangenze con altre opere di questo artista, dimostrandone la sicura attribuzione. Le pose degli angioletti possono aver indotto a pensare a Randa e qualche influenza può effettivamente essere stata esercitata dai dipinti del bolognese sull’artista reatino, nell’ambito dei suoi contatti con l’ambiente ferrarese.

Abbiamo qualche indizio anche su lavori che Randa avrebbe effettuato in paesi tra Rovigo e Ferrara[41], ma in quei luoghi al momento non sono stati trovati dipinti che possano essere ricondotti al nostro artista; Bartoli ricorda l’artista al lavoro in due paesi, senza indicare quali opere avrebbe eseguito e in quali edifici fossero collocate: ad Ariano nel Ferrarese si trova la chiesa di San Lorenzo Martire, contenente una serie di dipinti del ‘700; mentre in Arquà Polesine il castello è decorato con affreschi cinquecenteschi e la chiesa di Sant’Andrea Apostolo conserva dipinti seicenteschi e settecenteschi, ma nessuno da assegnare ad Antonio Randa; la grande pala sull’altare maggiore, col Martirio di Sant’Andrea, è opera di Gianbattista Canal (Venezia 1745 – Venezia 1825): questa tela può forse richiamare idee compositive dell’artista bolognese e presupporre ricordi del suo passaggio (o addirittura una ridipintura come in Sant’Antonio in Polesine).

Siamo alla conclusione di questa escursione nel passato di un professionista la cui creatività ha lasciato forme e colori in tutti i luoghi nei quali ha vissuto, tra dipinti rimasti e altri che possiamo almeno rievocare; come suo lascito ricordiamo anche le influenze che esercitò direttamente su altri pittori, uno del ferrarese (Ercole Sarti) e due bresciani (Giacomo Barucco e Francesco Paglia). Da non sottovalutare l’anticipo cronologico che Randa dimostra, alla luce di queste ricerche, rispetto ad alcuni dipinti del Guercino, se non altro dal punto di vista iconografico, mentre in precedenza era accaduto che sue tele fossero attribuite genericamente alla scuola del pittore centese. Abbiamo anche visto che del suo ingente lavoro nella città di Ferrara non rimane che il ricordo, ma i pochi indizi rimasti farebbero sospettare la sua impronta in opere di altri artisti che lo seguirono sulla scena estense.

Infine, scartando dalla sua produzione alcuni dipinti e valorizzando quelli di recente attribuzione – su basi documentarie e per questioni stilistiche – è emersa l’immagine di un artista in possesso di qualità pittoriche più alte e coerenti di quanto fosse stato finora considerato.

Note

[1] C.C. Malvasia, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, vol. I, Bologna 1678, p. 559.

[2] Ibid.

[3] G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, Ferrara 1846, p. 215. Vedi anche B. Ghelfi, Pittura a Ferrara nel secondo Seicento, Ferrara 2016, p. 9, per l’abuso della figura retorica del rissoso in parte della storiografia del Seicento.

[4] Madonna col Bambino, Sant’Antonio da Padova e le anime del purgatorio, pala d’altare conservata a Comacchio all’interno dell’Oratorio del Suffragio delle anime purganti e di Sant’Antonio. Vedi figura 4.

[5] D. Benati, I bolognesi a Ferrara: dai Carracci ad Antonio Randa, “MuseoinVita”, 1 febbraio 2015, reperibile online: https://museoinvita.it/benati-bolognesi-a-ferrara/.

[6] Un manoscritto del Malvasia, conservato all’Archiginnasio di Bologna (d’ora in poi BCABo), ma di difficile lettura, sembra rivelare che Randa cercò di uccidere il suo maestro Guido Reni per gelosia di una tale Rosa. Vedi C. C. Malvasia, Scritti originali, BCABo, ms. B 17, c. 85r; pubblicato in A. Arfelli (a cura di), Carlo Cesare Malvasia, Vite di Pittori Bolognesi, Bologna 1961, p. 107 e sintetizzato in E. Iannone, Un’aggiunta al catalogo di Antonio Randa, pittore bolognese: la “Sacra famiglia servita dagli angeli” dell’Arcivescovado di Milano, tesi di laurea in Storia dell’arte, Università di Milano, a.a. 2008/2009, p. 13. Vedi anche la successiva nota.

[7] P. Beretti, Antonio Randa, pittore bolognese, tesi di laurea in Storia dell’arte, Università di Bologna, a.a. 2011/2012, con relatori Daniele Benati e Nora Clerici Bagozzi. Il presente articolo costituisce una sorta di estratto dedicato in prevalenza alla presenza di Randa nei territori ferraresi.

Alcune fonti tarde (Ticozzi, de Boni) citano il 1570 come anno di nascita, senza motivare questa indicazione, e gli storici contemporanei accolgono acriticamente questa data, benché egli appartenesse alla generazione dei primi allievi di Massari e di Reni, non a quella dei suoi maestri (nati rispettivamente nel 1569 e nel 1575). Se fosse nato nel 1594 (prendendo come mero esempio l’anno di nascita di altri pittori della sua generazione artistica), Randa avrebbe avuto 16 anni nel momento in cui entrò nel primo atelier di Reni (circa 1610), 19 quando commise l’omicidio (1613), 20 all’accoglimento del salvacondotto come pittore (non “di corte” come scritto erroneamente da alcuni) a Modena (1614) e 50 di fronte allo specchio col quale si ritrasse a Rovigo e Comacchio (1644). Il luogo di nascita potrebbe essere un paese del circondario di Bologna, ancor meglio nella zona dove si trovano i suoi dipinti che, all’analisi stilistica, appaiono i più antichi (San Giorgio di Piano e la frazione di Gherghenzano): egli stesso si dichiarò “bolognese”, ma resta il fatto che il suo nome non risulta, in questo periodo, tra i battezzati nella Metropolitana di San Pietro (escludendo un troppo precoce Antonio di Nicola Randi del 1577, forse uno zio paterno).

[8] «[…] ebbe il bando di vita da Bologna per aver ucciso un suo condiscepolo, il quale con altri scolari nel tempo che studiavano il nudo della notomia nella scuola del Massari, del quale il Randa fu scolaro, fece con artificio muovere un cadavere umano, e fuggire Antonio spaventato giù per le scale con pericolo della sua vita»: Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., p. 215.

[9] «[…] l’anno passato scoperse manifestamente che filippo Roffini più volte haveva tentato d’amazarlo, et finalmente, essendo andato nella scuola dove stava a dipingere per commettere tal delito, L’Oratore per salvezza della sua persona fu sforzato amazarlo con una archibugiata»: Modena, Archivio di Stato, Cancelleria ducale, particolari, n. 1153. Questo manoscritto è stato individuato da Giada Damen e la fotografia dell’originale è stata inserita in Iannone, Un’aggiunta… cit., pp. 14 e 55. I documenti dell’epoca ci dicono che un Filippo Maria Ruffoni morì appunto il 30 gennaio di quell’anno e che egli abitava nella parrocchia di San Martino, non distante dai due atelier di Reni che erano dislocati intorno a Piazza Maggiore.

[10] G. Agostini, L. Scardino (a cura di), Inventari d’arte. Documenti su dieci quadrerie ferraresi del XIX secolo, Ferrara 1997, pp. 33, 42, 266.

[11] Questo dipinto, individuato da Fiorella Frisoni, è protagonista dell’intera tesi di Iannone, Un’aggiunta cit.

[12] Vedi la pubblicazione in L. Marzocchi (a cura di), Scritti originali del Conte Carlo Cesare Malvasia spettanti alla sua Felsina Pittrice Bologna 1983, pp. 234-235, dalla carta originale 176r del ms. B17 (BCABo) del Malvasia.

[13] Identificata da Daniele Benati, è attualmente conservata presso la Galleria Fondantico di Bologna e dimostra di essere in anticipo rispetto a simili dipinti realizzati dal Guercino, oltre a riportare un inedito brano di musica sacra. Da non confondere con la Santa Cecilia che gli era attribuita presso la Pinacoteca dei Concordi e che, anche dal confronto con questa recente acquisizione, appare chiaramente di tutt’altra mano. Cfr. F. Bartoli, Le pitture sculture ed architetture della città di Rovigo con indici ed illustrazioni. Operetta di Francesco Bartoli accademico d’onore clementino, Venezia 1793, pp. 227-228; Quadri da collezione. Dipinti emiliani dal XIV al XIX secolo, cat. della mostra a cura di D. Benati (Bologna, Casa Pepoli Bentivoglio, 9 novembre – 21 dicembre 2013), Bologna 2013, pp. 58-60.

[14] Gli affreschi che spiccano per argute simbologie, la bellissima pala d’altare e le due tele laterali sono state attribuite a Randa da Benati; cfr. Beretti, Antonio Randa cit., pp. 48, 116-146.

[15] Attribuita da Benati e descritta nelle tesi citate di Iannone, Un’aggiunta cit., p. 16 e Beretti, Antonio Randa cit., pp. 48, 108-115.

[16] «Nell’angolo opposto del Quadro sta espressa una Grù sostenente col destro piede un sasso simbolo della Vigilanza; e sopra di essa mezzo nascosto dietro il fabbricato lasciasi vedere un Uomo decentemente vestito, che se avesse un pennello in mano vorrei crederlo il Pittore di quest’opera, tanto più che nell’inferior parte sta sopra un Marmo scritto il suo nome così: ANTONIUS RANDA FACIEBAT»: Bartoli, Le pitture sculture cit., pp. 97-98.

[17] Non si può nemmeno escludere che il grande spagnolo possa aver conosciuto Randa e si sia ricordato di questo dipinto quando ritrasse se stesso in Las Meninas. Velázquez, affascinato dai pittori emiliani, si recò per due volte in Veneto e in Emilia negli anni in cui il nostro artista operò (1629-30, 1649-51) e osservò comunque gli affreschi di Colonna, Mitelli, Curti e Randa che erano nel Palazzo Ducale di Modena. Vedi P.M. Bardi in L’opera completa di Velázquez, Milano 1969, pp. 84-85. A. Palomino, Vida de don Diego Velázquez de Silva (1724), Madrid 2008, pp. 28-32, 37-42.

[18] Nora Clerici Bagozzi nel 1993 riconobbe i dipinti citati nei manoscritti di Marcello Oretti, vedi: M. Oretti, Pitture dello Stato Ecclesiastico, 1777-1778, BCABo, ms. B 291, c. 146v; N. Clerici Bagozzi, Opere d’arte nelle chiese di Comacchio fra il XV e il XVIII secolo, in Storia di Comacchio nell’età moderna, Casalecchio di Reno (Bo) 1993, vol. I, pp. 305-306, p. 335 note 110-112; I tesori nascosti delle chiese di Comacchio, cat. della mostra a cura di N.C. Bagozzi e A. Zamboni (Ferrara, Palazzo Vescovile, 10 giugno – 5 novembre 2000) Ferrara 2000, pp. 60, 147, 190, 192; N. Clerici Bagozzi, Marcello Oretti ed il patrimonio artistico di Comacchio, in “Quaderno. Istituto di Cultura Antica Diocesi di Comacchio”, anno II, n. 2, Ferrara 2003, p. 23.

[19] Nora Clerici Bagozzi, con comunicazione orale, ha asserito che da distanza ravvicinata la tela risulta pesantemente ridipinta.

[20] Ancora Nora Clerici Bagozzi ha ricostruito le accuse alla Confraternita da parte del vescovo Pandolfi in merito alla gestione delle elemosine, vedi I tesori nascosti cit, p. 61. Se davvero l’impostazione della scena deriva da questa vicenda dell’estate del 1648, la datazione dell’opera va spostata appena oltre questa data.

[21] Queste nota lettura dell’arte emiliana è esposta nell’intero saggio di F. Arcangeli, Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, cat. della mostra (Bologna, Palazzo dell’Archiginnasio, 12 settembre – 22 novembre 1970), Bologna 1970.

[22] Tale rilevanza dell’opera di Raffaello è stata riconosciuta da Maurizio Magli nel corso dei suoi insegnamenti presso il Liceo Artistico di Bologna nell’anno scolastico 1986/’87.

[23] C.C. Malvasia, Felsina pittrice: vite de’ pittori bolognesi (1678), a cura di G. Zanotti, vol. II, Bologna 1841, p. 350.

[24] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., p. 215.

[25] Ibid., nella stessa pagina Baruffaldi ricorda che Randa aveva dipinto «alcuni santi Benedettini per la chiesa di s.Benedetto, avendo vestito egli negli ultimi anni di sua vita l’abito di monaco cassinense».

[26] È grazie a un ricordo giovanile del Malvasia che veniamo a sapere del Randa che lavora nello stesso atelier di Massari, mentre questi stava dipingendo le tele destinate alla Certosa. Vedi Marzocchi, Scritti originali cit., pp. 234-235.

[27] C. Brisighella, in M. A. Novelli (a cura di), Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara di Carlo Brisighella, Ferrara 1990, pp. 117, 297, 370, 416, 440, 491; Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., p. 215; C. Barotti, Pitture e scolture che si trovano nelle chiese, luoghi pubblici, e sobborghi della città di Ferrara, Ferrara 1770, pp. 24, 66, 139, 179; G. A. Scalabrini, Memorie istoriche delle chiese di Ferrara e de’ suoi borghi, Ferrara 1773, pp. 67, 308, 414; G. A. Scalabrini in C. Frongia (a cura di), Guida per la città e i borghi di Ferrara in cinque giornate di Giuseppe Antenore Scalabrini, Ferrara 1997, p. 67; A. Frizzi, Guida del forestiere per la città di Ferrara, Ferrara 1787, p. 104.

[28] Brisighella, Descrizione cit., p. 117.

[29] Scalabrini, Memorie istoriche cit., p. 67.

[30] L’impostazione dell’Apparizione del Galluzzo la rende parte di una stessa famiglia insieme ad opere di Lucio Massari, scomparso nel 1633: lo Sposalizio mistico di Santa Caterina nella chiesa di San Benedetto a Bologna e il San Gaetano ancora a Bologna nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Gaetano. Guercino firmerà soltanto dopo diverso tempo la famosa Apparizione della Madonna a san Bruno, un tempo nella Certosa di Bologna e ora nella locale Pinacoteca: pagata nel 1647, si pone cronologicamente tra le pale randiane del Galluzzo (circa 1639) e di Ferrara (post 1657). La pala del Galluzzo di Antonio Randa potrebbe anche essere stata eseguita in un atelier di Bologna prima di venire spedita in Toscana, come era prassi del suo maestro Massari, e quindi essere stata conosciuta da Guercino, sebbene pochi siano i punti di contatto con la tela del centese.

[31] G. Sassu in G. Sassu e F. Scafuri, Le chiese di Ferrara. Storia, arte e fede, Ferrara 2013, pp. 114-115.

[32] Brisighella, Descrizione delle pitture cit., pp. 297, 304 note 10 e 11, 305 nota 16.

[33] Op. cit., pp. 416, 417 nota 6.

[34] Op. cit., pp. 440 e nota A, 443 nota 7.

[35] Op. cit., p. 491 e nota 1; Barotti, Pitture e scolture cit., p. 179; G.A. Scalabrini, Memorie istoriche cit., p. 308.

[36] Brisighella, Descrizione delle pitture cit., p. 587 e nota 2.

[37] Brisighella, Descrizione delle pitture cit., pp. 370, 371 note 6 e 12.

[38] Vedi L. Pigaiani, Altari laterali nella Chiesa di Sant’Antonino Martire,
http://www.comune.ficarolo.ro.it/arte/132-altari-laterali-nella-chiesa-di-santantonino-martire

[39] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., p. 215; Barotti, Pitture e scolture cit., p. 139; Scalabrini, Memorie istoriche cit., p. 296; G.A. Scalabrini, Guida per la città e i borghi di Ferrara in cinque giornate, ed. a cura di C. Frongia, Ferrara 1997, p. 67.

[40] R. Morselli, Antonio Randa, in E. Negro e M. Pirondini (a cura di), La scuola di Guido Reni, Modena 1992, p. 310. Sono contro l’attribuzione a Randa anche Nora Clerici Bagozzi e Daniele Benati (comunicazione orale).

[41] Bartoli, Le pitture sculture ed architetture cit., pp. 296-297.

Pubblicato su “MuseoinVita” | 3-4 | giugno-dicembre 2016

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