La nostra storia è basata su un insieme di opere sopravvissute
a mille pericoli dai quali altre non hanno potuto salvarsi[1].
Con il presente lavoro intendo fornire alcune riflessioni sulla collezione dell’ex Direzione Orfanotrofi e Conservatori. Queste considerazioni sono nate dall’intervento d’inventariazione riguardante l’archivio e la quadreria dell’Istituzione, affidatomi dall’ASP – Centro Servizi alla Persona, che ne è proprietaria. Il lavoro parallelo sulle carte d’archivio e sulle opere, in seguito esteso anche ad altri fondi, ha permesso il rilevamento di una serie di dati rimasti finora ignorati. Mi è stato così possibile integrare quanto risultante dalle “guide” artistiche del Sei e Settecento, da altre testimonianze antiche e dalla precedente schedatura delle opere, effettuata da Chiara Toschi Cavaliere negli anni Novanta del XX secolo[2].
Ho cercato di ricondurre ogni singolo dipinto all’istituto di provenienza, secondo un’ottica di storia del collezionismo, evitando criteri di sistemazione più tradizionali, proprio per non spezzare il legame esistente fra il singolo pezzo e il contesto originale. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, vi sono stati, in varie città d’Italia, altri tentativi di schedatura del patrimonio di enti similari[3].
Questi testi mostrano come, per una corretta valutazione dello status di “bene culturale” di tali dipinti, ci si debba occupare soprattutto del contesto di produzione e della finalità a cui essi erano destinati. Risulta, quindi, necessario ricostruire il legame con le sedi originarie e la volontà della committenza, privilegiando quest’ottica sulle ragioni della storia dello stile tradizionalmente intesa.
Tuttavia, ciò non significa affatto rinunciare a un’analisi storico artistica, così come asserisce anche Enrico Castelnuovo: «Far storia dell’arte significa anche ricercare i contesti, ricercare le situazioni in cui sono state create e quelle in cui successivamente si sono trovate»[4]. Sono, dunque, partito dalla ricostruzione delle vicissitudini della collezione e dell’Istituzione che le ha tramandate fino a noi. Questi dipinti, contrariamente a quanto succede normalmente, sono sfuggiti a lungo al destino della musealizzazione, rimanendo custoditi da un’organizzazione che perpetuava, almeno in parte, le finalità originarie. Base per l’individuazione della provenienza dei quadri è stata l’Inventario dei beni mobili della Direzione Orfanotrofi e Conservatori, compilato nel 1891 e aggiornato fino al 1898[5]. Le notizie ricavabili da questo documento sono state in seguito confrontate con diversi inventari rinvenuti fra le carte dei singoli istituti, per la maggior parte risalenti ai secoli XVIII-XIX. È così possibile ricostruire per brevi cenni la storia della quadreria e dell’Istituzione da cui prende il nome.
Fino alla fine del Settecento, l’assistenza pubblica nella città estense, pur caratterizzata da una frammentazione di iniziative, venne indirizzata verso due macroaree d’intervento: a) la beneficenza generica rivolta a infermi, indigenti, mendicanti e “poveri vergognosi”; b) il ricovero di orfani, bambini abbandonati e illegittimi. In particolare, il recupero delle ragazze abbandonate a se stesse era finalizzato a sottrarle alla prostituzione e alla criminalità. L’interesse delle autorità e la maggior parte degli interventi erano, infatti, rivolti alla creazione di istituti destinati principalmente a ospitare le fanciulle sole, i quali vennero indicati con il nome generico di Conservatori della Virtù[6]. Una efficace sintesi dei loro scopi ci è data dalle parole del cardinale Carlo Luigi Morichini (Roma 1805–1879): «I conservatori furono creati perché ponessero in salvo l’onestà delle fanciulle, dessero loro una cristiana educazione ed abilitandole ai lavori donneschi e alle faccende domestiche, le preparassero a diventar buone madri di famiglia»[7]. La salvaguardia dell’onore femminile, infatti, era sentita come una priorità assoluta, se anche un’istituzione come quella dei Poveri Mendicanti, che ufficialmente avrebbe dovuto ospitare sia maschi che femmine, venne destinata nel 1673 principalmente a queste ultime, portando a duecentocinquanta i posti disponibili, di cui duecento riservati alle donne[8]. Nuovi conservatori saranno creati solo nel secondo Settecento. Questi istituti erano spesso vittime del clientelismo degli amministratori laici o ecclesiastici, che se ne servivano per sistemare le proprie parenti e quelle dei propri “clienti”. In questo modo, l’originaria ragion d’essere di tali strutture, ovvero l’opera di soccorso a tutela della moralità femminile negli strati più poveri della popolazione, ne risultava grandemente indebolita. Non va dimenticato che tale servizio, originariamente, non era rivolto alle esponenti della piccola e media “borghesia”, ma a quelle popolane che, per la loro marginalità sociale, costituivano la maggiore minaccia alla stabilità di una società basata sulla centralità e sacralità della famiglia e, soprattutto, su quella gelosa custodia dell’onore femminile che ne costituiva l’indispensabile premessa e il principale fondamento[9]. Nella nostra città, sul modello di quanto si andava facendo nel frattempo a Roma, si tentò di porre rimedio a questa situazione sia con la creazione/finanziamento di nuovi istituti, sia riformando radicalmente quelli già esistenti, scegliendo proprio quelli che potessero fungere da memorabile esempio. Assistiamo così a sostanziali riforme dei regolamenti originari, resi sempre più severi secondo un’ottica che vede nell’esistenza di mendicanti e fanciulle abbandonate più che una questione “sociale”, un problema di pubblica sicurezza. Anche per i conservatori si assiste, quindi, alla trasformazione di molte strutture in qualcosa di più simile a riformatori o reclusori.
La situazione cambia radicalmente in seguito all’arrivo dei Francesi, nel 1796. Ben presto, tutti i conservatori, revocati come istituti religiosi, furono ripristinati e concentrati in una sola sede e sotto un’unica amministrazione. Nel 1798-99 sembra che il Conservatorio femminile delle Mendicanti sia stato ospitato nel soppresso convento del Corpus Domini[10]. Dal 1799 al 1804, con tutte le altre Opere Pie, è riunito nella Beneficenza Pubblica, che dal 1804 al 1815 assume il nome di Congregazione di Carità. Successivamente, come sede dei conservatori, sarà scelto dapprima l’ex convento di Santa Caterina da Siena e in seguito l’ex convento di San Guglielmo, nell’attuale via Palestro. Con la Restaurazione e fino al 1859, l’amministrazione, con la denominazione di Orfanotrofi Laici, ha sede nel complesso dei Mendicanti. Qui vengono trasferiti definitivamente sia le ragazze che gli arredi provenienti dagli organismi alienati durante il periodo napoleonico, mentre rimangono in loco quelli pertinenti al Conservatorio di Santa Barbara. La gestione degli istituti, dalla fine del 1859 al luglio del 1862, passa sotto il controllo di una nuova Congregazione di Carità. Con il Regio decreto 31 luglio 1862 di «riordino delle opere pie della città di Ferrara», viene creata la Direzione Orfanotrofi e Conservatori di Ferrara. La sede rimane, tuttavia, presso l’ex complesso dei Mendicanti. I conservatori vengono, così, sottratti al controllo della Congregazione di Carità, caso assolutamente unico in Italia.
Con l’arrivo del secolo XX, viene incamerato anche l’ex convento di Santa Lucia, destinato a sede della sezione maschile e denominato Orfanotrofio Umberto I, mentre la sezione femminile assume il titolo di Orfanotrofio della Provvidenza. Questo nome viene poi cambiato nel 1967 in Istituto Margherita d’Este. Con l’ampliamento del complesso, tutti i ragazzi e gli arredi vengono concentrati nella sede centrale, situata nelle attuali vie Ariosto e Benvenuto Tisi da Garofalo. Questa sarà quasi completamente distrutta degli ordigni sganciati nelle notti del 28 gennaio e 5 giugno 1944. Da quanto risulta dalla documentazione d’archivio finora reperita, sembra che l’attuale collezione costituisca effettivamente quanto salvatosi da tali bombardamenti. A partire dal 1943, fortunatamente, le Suore della Carità che gestivano la Provvidenza decisero di propria iniziativa il trasferimento degli arredi sacri presso la propria casa madre in piazza Ariostea (già Palazzo Rondinelli).
Proprio nelle vicende belliche vanno ricercate le cause dell’assenza dei ritratti dei benefattori, che erano conservati insieme ai documenti di fondazione nella Sala del Consiglio andata completamente distrutta. D’altra parte, è comprensibile che le religiose, a loro rischio e pericolo, abbiano tratto in salvo i quadri devozionali e gli arredi sacri. Dagli inventari dei beni mobili, compilati dal 1950 al 1955, sappiamo che nel 1950 gran parte dei dipinti superstiti era concentrata presso il conservatorio femminile. Cinque anni dopo vengono schedate da parte della Soprintendenza alle Belle Arti per l’Emilia-Romagna le opere più significative presenti nella chiesa di San Giovanni e all’interno dell’Istituto della Provvidenza; nel 1956 i quadri dell’edificio di culto sono infine portati presso la stessa struttura.
Dalla documentazione consultata non è emersa traccia delle vicende relative alle opere durante tutti gli anni Sessanta. Nella seduta dell’8 ottobre 1973, il Consiglio d’Amministrazione dei Conservatori vota la deliberazione n. 68, Disposizioni per il deposito mobili: con quest’atto si sancisce il deposito della quadreria e degli arredi di pregio di proprietà dell’Istituzione ai Musei Civici di Arte Antica. Nell’occasione viene redatto anche un primo elenco di consistenza dei quadri e delle stampe. Le operazioni di consegna, per diverse vicende interne, subiscono una battuta d’arresto e riprendono soltanto nel 1974. Il Consiglio Comunale di Ferrara, al punto 9 del verbale della seduta del 22 febbraio 1974, delibera l’accettazione della consegna del materiale della collezione Orfanotrofi compilando un nuovo elenco di consegna (parziale, in quanto mancante di tutte le stampe, litografie e simili). Le operazioni saranno poi completate nel settembre del 1974. Nel 1981, il Comune di Ferrara decreta lo stanziamento di fondi per il restauro complessivo dei quadri della collezione[11].
Soltanto con il deposito del 1974 inizia quindi la storia della musealizzazione di questa raccolta, spezzando così il tenue filo che ancora collegava le opere al contesto originario.
Se da un lato la vicinanza temporale degli avvenimenti mi ha permesso di ricostruire esattamente tutti i passaggi dell’operazione, dall’altro ha causato una rapidissima e totale perdita della memoria storica, che solo ora comincia a essere ricucita con l’esposizione di alcune opere[12].
La ricostruzione delle vicende e dispersioni subite dalla Quadreria degli Orfanotrofi ci permette di spiegare come mai oggi ci troviamo di fronte a una serie di quadri esclusivamente a tema sacro, mentre mancano del tutto i soggetti profani e, soprattutto, i ritratti dei benefattori che normalmente abbondano nel patrimonio di simili istituzioni.
Per meglio cogliere l’ottica di ricerca, propongo un possibile percorso di lettura relativo a una interessante persistenza iconografica e tematica che caratterizzano la collezione. In essa, infatti, esiste un nucleo di quattro pale d’altare che, pur coprendo un arco di tempo compreso all’incirca fra il 1588 e il 1760, presenta analogie compositive assai evidenti. È indubbio che, nelle intenzioni dei committenti, l’aspetto artistico e stilistico, pur importantissimo, venga sempre e comunque subordinato alla funzione educativa che le singole opere assumono. Si tratta di grandi pale in cui, nella parte superiore, è rappresentata la scena sacra, mentre in quella inferiore troviamo un gruppo di fanciulle che assistono commosse alla scena. Solo in un caso abbiamo, fra gli astanti, anche mendicanti maschi, ma si tratta per l’appunto della pala proveniente dall’istituto omonimo. In ogni caso, i visi presentano lineamenti talmente caratterizzati da far pensare a ritratti di persone reali. Ci troviamo di fronte a un espediente psicologico identificativo: rappresentando le destinatarie delle opere come spettatrici dell’azione sacra, se ne assicura fortemente la partecipazione emotiva, favorendo l’introiezione del messaggio educativo veicolato da tali immagini.

Fig. 1, G. Mazzuoli detto il Bastarolo, Madonna col Bambino in gloria fra le sante Orsola e Barbara venerata dalle Zitelle, 1588, Ferrara, Musei di Arte Antica, collezione Orfanotrofi
Pala per Santa Barbara
Il quadro (fig. 1) è opera di Giuseppe Mazzuoli detto il Bastarolo (Ferrara 1536–1589), databile al 1588 circa[13]. Rappresenta la Madonna in gloria con le sante Barbara e Orsola adorate dalle Zitelle del Conservatorio. Il dipinto, contrariamente a quanto scritto da quasi tutti coloro che se ne sono occupati, non ha alcun legame con le Orsoline, a cui era invece affidato il Conservatorio di Sant’Agnese: la presenza di sant’Orsola si spiega, infatti, con il suo ruolo di protettrice delle orfanelle. Pertanto, il quadro è da intendersi come una classica pagina di teologia post tridentina e va letto dal basso verso l’alto. Le preghiere delle “citelle” vengono mediate e accolte dalle due sante patrone inginocchiate ai piedi della Vergine, la quale le riferirà direttamente al Padre Eterno, raffigurato nella cimasa ora dispersa.
Il Conservatorio di Santa Barbara viene edificato nel 1572 per iniziativa della duchessa Barbara d’Asburgo, seconda moglie di Alfonso II, con lo scopo di accogliere e provvedere alle ragazze rimaste orfane in seguito al grande terremoto del 1570. Nulla si sa della sede e della chiesa originarie. L’attuale edificio di culto viene ricostruito ad aula nel 1586 e consacrato nel marzo del 1611 dal vescovo Giovanni Fontana. Il progetto attuale è tradizionalmente attribuito a Giovan Battista Aleotti (Argenta 1546–Ferrara 1636). Il canonico Domenico Gatti, priore del Conservatorio, il 15 marzo 1700 istituisce una cappellania perpetua facendo costruire una cappella dedicata alla Vergine e San Domenico[14]. L’edificio del Conservatorio sorgeva all’incrocio fra Corso Giovecca e via Mortara. Semidistrutto dai bombardamenti nel 1943, viene abbandonato e la chiesa sconsacrata e adibita a magazzino. Il Conservatorio risulta essere stato usato anche come reclusorio e domicilio coatto per ebree convertite[15].

Fig. 2, Carlo (e Leonello?) Bononi, Cristo in gloria fra i santi Pietro e Paolo con mendicanti in preghiera, 1615-20, Ferrara, Musei di Arte Antica, collezione Orfanotrofi
Pala dei Mendicanti
Proveniente dal Conservatorio omonimo, è opera (fig. 2) di Carlo Bononi (1569?–1632) forse con l’aiuto del nipote Lionello Bononi (notizie dal 1619 al 1666)[16]. Il dipinto rappresenta Cristo in gloria fra i santi Pietro e Paolo con mendicanti in preghiera. La presenza di questi ultimi nel registro inferiore della pala indica che la stessa è stata realizzata dopo la fondazione dei Poveri Mendicanti. Per questo motivo il febbraio del 1615 costituisce il termine post quem per la datazione dell’opera. È comunque improbabile che questa sia stata realizzata molto tempo dopo il 1620, quando all’istituzione venne garantita una rendita fissa con la concessione del diritto di riscossione della tassa sulla fabbricazione dei rosoli, rendendo così possibili i lavori di decorazione della chiesa. La pala, come impostazione iconografica, ricorda molto da vicino quella realizzata dallo Scarsellino per la chiesa di Santa Chiara intorno al 1609 (fig. 3)[17]. Anche in questo caso, la composizione è nettamente tagliata in due dalla presenza dell’altare, cerniera ideale fra la scena che si svolge nella chiesa e l’apparizione divina che occupa tutta la parte superiore dell’immagine. Come nel caso della pala del Bastarolo per Santa Barbara, la scena va letta dal basso verso l’alto con le preci dei miserabili ospiti dell’istituzione che salgono verso i santi titolari della chiesa, i quali le trasmettono a Cristo. Significativo in questo senso che l’asse di simmetria della composizione comprenda, a partire dal basso, il mendicante accovacciato che sembra sorreggersi al cane, il crocefisso sulla mensa dell’altare e la figura dello stesso Cristo a chiudere la composizione. La figura del vecchio inginocchiato all’estrema destra, miserabile ma non cencioso come il resto dell’umanità alla base del dipinto, potrebbe accennare ai Poveri Vergognosi, la cui presenza presso l’istituzione era prevista negli statuti originali.

Fig. 3, Ippolito Scarsella detto Scarsellino, Madonna col Bambino in gloria fra i santi Chiara, Francesco e le Cappuccine adoranti l’Eucarestia, 1609 ca., Ferrara, Santa Chiara
Dell’assistenza generica ai cosiddetti Poveri Vergognosi (famiglie un tempo agiate poi cadute in miseria e che si vergognavano di mendicare) si occupava inizialmente l’Opera Pia dei Poveri di Cristo. Tale istituzione venne creata nel 1290 nella Cattedrale di Ferrara, grazie all’iniziativa del domenicano Guido da Montebello e affidata a una confraternita denominata Congregazione della Regina de’ cieli dei Poveri Vergognosi. Il 27 settembre 1314, nel palazzo vescovile di Voghenza, «Aymerigetus Blavarolus», Sindaco di questa Congregazione, consegna a Guido, vescovo di Ferrara, tutti i diritti che essa aveva sui propri beni[18]. Nel 1491, il predicatore Servita Martino (o Mariano) de’ Baldi riforma l’Opera Pia, istituendo la Confraternita di S. Martino[19].
Di mano di fra’ Mariano è il codice delle regole della scuola, datato aprile 1491, impreziosito da capilettera decorati, inchiostro d’oro e soprattutto da due miniature attribuite a Tommaso di Cesare di Basso da Modena[20]. Papa Paolo V, il 27 febbraio 1615, istituisce l’Opera Pia della Povertà Generale, vi raccoglie i poveri d’ambo i sessi che mendicavano per la città e li unisce all’antico Orfanotrofio dei Mendicanti nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo in via della Colombaia o Colombara[21]. Viene così soppressa l’Opera Pia dei Poveri di Cristo, le cui cospicue rendite passano alla nuova istituzione. Nel 1620, inoltre, è concessa la privativa sulla fabbricazione e vendita di acquavite e rosoli[22]. L’istituzione sarà soppressa nel 1796 all’arrivo dei Francesi.

Fig. 4, Ippolti Scarsella detto Scarsellino, Martirio di santa Margherita, 1611, Ferrara, Musei di Arte Antica, collezione Orfanotrofi
Pala di Santa Margherita
Rappresenta il martirio di santa Margherita mediante decapitazione (fig. 4). La tela è opera di Ippolito Scarsella detto Scarsellino (1551-1621), datata 1611, come risulta da quanto riportato sul retro della stessa[23]. Anche in questo caso, nell’estremità inferiore sinistra, sono rappresentate le Zitelle del Conservatorio ai piedi del patibolo, in contemplazione dell’eroica fermezza della santa. Dal testamento del pittore risultano i suoi legami con l’istituzione, essendo questo l’unico conservatorio fra i luoghi pii da lui beneficiati[24]. Le fanciulle, in questo caso, sembrano inserite in maniera un po’ forzata: ciò farebbe pensare a un’aggiunta in corso d’opera dovuta alle richieste della committenza. Se questa ipotesi venisse confermata, risulterebbe ancora più chiaro che l’adesione a uno stilema iconografico riconosciuto era ritenuto quasi obbligatorio per la pala d’altare della chiesa di un conservatorio.
Il Conservatorio di Santa Margherita viene fondato nel 1594 circa per volontà di Margherita Gonzaga, terza moglie di Alfonso II d’Este, e collocato in una casa affittata all’uopo in cui era stato costruito anche un oratorio. Il 3 giugno 1597 ottiene l’erezione canonica da parte del vescovo Giovanni Fontana, che se ne riserva la supervisione[25]. In poco tempo, la primitiva sede riesce troppo angusta e malsana e si rende necessaria una nuova sistemazione. Il 30 agosto 1601, il Maestrato dei Savi approva l’acquisto, da parte del Comune per conto delle Zitelle di Santa Margherita, del palazzo già della famiglia Pendaglia, nell’attuale via de’ Romei[26]. L’attuale chiesa viene edificata fra il 1604 e il 1607 su progetto attribuito ad Aleotti. In seguito alle soppressioni napoleoniche fu venduta a privati.
Nella notte fra il 15 e il 16 dicembre 1831 un incendio distrusse completamente il soffitto della chiesa, estendendosi anche agli edifici circostanti. Nel 1846-47, vennero provvisoriamente alloggiati nei locali dell’ex Conservatorio i primi ospiti della Pia Casa di Ricovero ed Industria, in attesa che venisse sistemata la sede definitiva in via Ripagrande, precisamente negli ambienti dell’ex “Conciera” delle pelli. L’edificio, prima affittato e poi ceduto al Comune di Ferrara, fu quindi adibito a caserma dei Pompieri e della Guardia Nazionale e infine a sede di scuola[27].

Fig. 5, Francesco Pellegrini, Madonna che consegna il Bambino a santa Rosa da Lima al cospetto delle Zitelle, 1759 ca., Ferrara, Musei di Arte Antica, collezione Orfanotrofi
Pala di Santa Maria della Rosa
La pala rappresenta la Madonna che consegna in braccio a santa Rosa da Lima il Bambin Gesù, al cospetto delle Zitelle in adorazione (fig. 5), opera del 1759 circa di Francesco Pellegrini (1707–1799)[28]. L’anno di esecuzione e l’autore dell’opera sono testimoniati da un inventario dei beni del Conservatorio di Santa Maria della Rosa, compilato nel 1740 con successivi aggiornamenti. Alla fine del penultimo di questi, datato 1760, leggiamo: «Un quadro nuovo, fatto il pittore Pellegrini per l’altare maggiore, rappresentante la Santa Vergine il Bambino Santa Rosa»[29].

Fig. 6, Anonimo ferrarese, Statuti e regule da osservarsi…, 1544, Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, ms. classe I 780
Il Conservatorio viene fondato nel 1544 per volontà del duca Ercole II nell’attuale via Borgoleoni, dove ora è la chiesa ed ex convento del Gesù. Si tratta del primo istituto del genere a Ferrara e uno dei primi conservatori in Italia. Grazie ai rogiti del notaio ducale Maurelio Taurini o Torelli siamo molto ben informati sulle vicende iniziali della nuova istituzione. Il primo dato che balza agli occhi dagli atti è che l’organizzazione è definita ufficialmente come “Orphanotrophium Ferrarie sub vocabulo Sancte Marie a Rosa”. Il regolamento originario risale allo stesso 1544 e fu approvato dal duca il 6 febbraio 1547. Il testo ci è trasmesso da un codice membranaceo miniato, conservato presso la Biblioteca Comunale Ariostea, con la segnatura Classe I 780: «Statuti e regule da osservarsi nel regimento e guberno del’hospital de Sancta Maria dela Rosa depu/tato per li homeni e fratelli di essa Compagnia ad uso e bisogno de le donzelle che rimangono pupille e orphane de la città di Ferrara. 1544»[30] (fig. 6).
Il 30 marzo 1554, il complesso di via Borgoleoni (chiesa e orfanotrofio) viene ceduto ai Padri Gesuiti perché vi facessero la sede del loro collegio[31]. Il Conservatorio è spostato sulla via degli Angeli, nella casa in cui aveva abitato la beata Lucia da Narni alla sua venuta a Ferrara[32]. L’edificio, all’epoca di proprietà del monastero di Santa Caterina Martire, venne acquistato il 29 marzo 1554[33].
Per concludere, ci si augura che, con la riapertura totale del museo di Schifanoia, anche le opere degli Orfanotrofi e Conservatori possano finalmente acquisire quella visibilità che fino ad ora è loro mancata, corredata da tutti gli adeguati strumenti di contestualizzazione che ne consentano una corretta fruizione da parte del pubblico.
Note
[1] E. Castelnuovo, Di cosa parliamo quando parliamo di storia dell’arte, in E. Castelnuovo, La Cattedrale tascabile: scritti di storia dell’arte, Città di Castello 2000, p. 82.
[2] C.Toschi Cavaliere, Schede OAA, Direzione Orfanotrofi e Conservatori, dattiloscritto inedito (1992).
[3] Cfr. M. Carboni, M.G. Muzzarelli (a cura di), L’iconografia della solidarietà: la madiazione delle immagini (secoli XIII-XVIII), Venezia 2011. Per i lavori di schedatura si veda invece, a titolo di esempio, il seguente elenco suddiviso per ambito territoriale:
M. Bascapè, P. Galimberti, S. Rebora (a cura di), Il tesoro dei poveri: il patrimonio artistico delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (ex Eca) di Milano, Milano 2001; B. Aikema, D. Meijers, Nel Regno dei poveri: arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna, 1474–1707, Venezia 1989; G. Algeri, D. Ferrari (a cura di), Quadri libri e carte dell’Ospedale di Mantova: sei secoli di arte e storia, Mantova 2002; A. Colombi Ferretti, G. Lippi (a cura di), Settecento Riformatore a Faenza: antefatti del Neoclassicismo e del patrimonio d’arte dell’ospedale, Ferrara 1999; A. Emiliani (a cura di), Assistenza, arte, esistenza: una collezione nella “Casa degli anziani”, Cesena 2008; Arte e Pietà: i patrimoni culturali delle opere pie, cat. della mostra, Bologna 1980; M. Rubbini, La quadreria dei poveri vergognosi, Bologna 2004; L’eredità dei Bastardini: dall’assistenza all’arte. Opere scelte dal patrimonio della Provincia di Bologna, cat. della mostra a cura G.P. Cammarota, M. Pigozzi, S. Maini, Bologna 2013; D. Gallavotti Cavallero, Lo spedale di Santa Maria della Scala in Siena: vicenda di una committenza artistica, Pisa 1985; L. Bellosi (a cura di), L’oro di Siena: il tesoro di Santa Maria della Scala, Milano 1996; G. Piccinini, G. Zarrilli (a cura di), Arte e assistenza a Siena: le copertine dipinte dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, Pisa 2003; C. Firorillo, Gli incurabili: l’ospedale, la farmacia, il museo, Udine 1991.
[4] E. Castelnuovo, Di cosa parliamo cit., p. 75.
[5] Archivio di Stato di Ferrara (d’ora in poi ASFe), Orfanotrofi, primo deposito, pacco 272.
[6] Cfr. A. Groppi, I conservatori della virtù: donne recluse nella Roma dei papi, Roma 1994.
[7] C. L. Morichini, Degl’Istituti di pubblica carità ed istruzione primaria e delle prigioni, vol. I, Roma 1842, pp. XXXI-XXII. Per questo personaggio cfr. la voce di I. Veca in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 76, Roma 2012.
[8] Ordini sopra il buon governo dello spedale dei Mendicanti della città di Ferrara…, Ferrara 1675, p. 35 (capitolo XXVIII punto 2).
[9] Sull’argomento si veda ad esempio: A. Groppi, I conservatori della virtù cit.
[10] T. Lombardi, I Francescani a Ferrara, vol. IV: I monasteri delle Clarisse: S. Guglielmo, Corpus Domini, S. Bernardino, S. Chiara, Bologna 1975, p. 247.
[11] Delibera della Giunta di Ferrara n. 190 del 10 febbraio 1982, protocollo 3554/81 importo complessivo lire 26.771.000; ditte vincitrici Maria Cristina Vignale (Bologna); Libera Antonietta Piva (Bologna); Patrizia Cantelli (Bologna).
[12] Una selezione delle opere è attualmente esposta a Palazzo Bonacossi, in una delle sezioni della mostra Aspettando Schifanoia… Si espone a Bonacossi: http://www.artecultura.fe.it/1894/aspettando-schifanoia-si-espone-a-bonacossi.
[13] Si tratta di un olio su tela di cm 304 x 200, inv. D.O.C. n. 90. Cfr.: M. Faietti, Il Bastarolo, in Bastianino e la pittura a Ferrara nel Secondo Cinquecento, cat. della mostra a cura di J. Bentini, Bologna 1985, pp. 151-172; M. Faietti, Persistenze iconografiche e continuità di messaggio religioso in due dipinti del Bastarolo e del Bononi, in Cultura figurativa ferrarese tra XV e XVI secolo, Venezia 1981, pp. 283-320; B. Ghelfi, Pittura a Ferrara nel primo Seicento. Arte, committenza a spiritualità, Ferrara 2011, p. 31.
[14] Archivio Storico Diocesano di Ferrara (d’ora in poi ASDFe), Atti di Curia, n. 11 del 1700.
[15] La notizia si ricava dal testamento di Paola Mellini, dove figura un lascito a un’ebrea convertita dimorante in Santa Barbara. Cfr. ASFe, Archivio Notarile antico, Francesco Scutellari matricola 926, pacco 5, 1624, fascicolo allegato a carta 58 verso.
[16] L’opera misura cm 340 x 200, inv. D.O.C. n. 63. cm. La figura di Carlo Bononi è stata recentamente riletta e rilanciata: cfr. Ghelfi, Pittura a Ferrara cit., ad indicem; G. Sassu, Tra immagine e persuasione…, in Immagine e Persuasione. Capolavori del Seicento dalle chiese di Ferrara, cat. della mostra a cura di G. Sassu (Ferrara, Palazzo Trotti-Costabili, 14 settembre 2013 – 6 gennaio 2014), Ferrara 2013, pp. 79-85.
[17] V. Lapierre, in Immagine e Persuasione cit., pp. 102-106 cat. 2.
[18] ASDFe, Mensa Arcivescovile, catastro E, carta 22 e seguenti.
[19] Formata da dodici uomini di ogni condizione e da un priore denominato Sindaco dei Poveri di Cristo. Compito dei confratelli era raccogliere le elemosine per gli indigenti dalle chiese per poi distribuirle per le case dei Poveri Vergognosi, di notte e col volto coperto.
[20] Biblioteca Comunale Ariostea (d’ora in poi BCAFe), Classe I, n. 346, Ordinationi per la Scola de’ Poveri di San Martino di Ferrara (CNMS/00000051382).
[21] Costruita sul modello dell’Opera dei Mendicanti di Bologna. Per la storia dell’Istituto bolognese, cfr.: G. Calori, Una iniziativa sociale nella Bologna del ‘500: l’Opera dei Mendicanti, Bologna 1972; V. Zappetti, Filantropi e benefattori per tradizione, Bologna 2002.
[22] Vedi G.A Scalabrini, Memorie istoriche delle chiese di Ferrara e de’ suoi borghi, Ferrara 1773; ed. cons. Ferrara 1982, pp. 100-103; M.A. Guarini, Compendio historico dell’origine, accrescimento, e prerogative delle chiese, e luoghi pii della città, e diocesi di Ferrara…, Ferrara 1621, pp. 13-14, 144-145.
[23] L’opera misura circa cm 243 x 158, inv. D.O.C. n. 51. Cfr.: M.A. Novelli, Lo Scarsellino, Ferrara 2008, p. 298 cat. 48; Ghelfi, Pittura a Ferrara cit., p. 88.
[24] ASFe, Archivio Notarile Antico di Ferrara, Giulio Cesare Cattani matricola 883 pacco 7s, atto 16 marzo 1620.
[25] ASFe, Orfanotrofi e Conservatori, I deposito n. 32, catastro primo di S. Margherita, carta 2.
[26] Archivio Storico Comunale di Ferrara (d’ora in poi ASCFe), Serie patrimoniale, Busta 35, fs. 46, punto 3.
[27] Per una ricostruzione dei primi due secoli di storia dell’edificio, si veda M.T. Sambin de Norcen, Il cortigiano architetto: edilizia, politica, umanesimo nel Quattrocento ferrarese, Venezia 2012. Per le vicende successive del complesso, cfr. G. Marcolini, La chiesa di Santa Margherita a Ferrara e gli edifici sacri delle strutture assistenziali post-tridentine, in C. Cavicchi, F. Ceccarelli, R. Torlontalo (a cura di), Giovan Battista Aleotti e l’architettura, Reggio Emilia 2003, pag. 55-68; M.C. Bertieri, I teatri di Ferrara – Il Tosi Borghi, Lucca 2012, pp. XII-XV.
[28] La pala misura cm 221 x 139, inv. D.O.C. n. 23.
[29] ASFe, Orfanotrofi, primo deposito, busta 74, libro N numero 27.
[30] Il testo, verrà poi dato alle stampe nel 1670: Statuti e regole da osservarsi nel reggimento e governo dell’hospitale di S. Maria della Rosa…, Ferrara 1670.
[31] ASFe, ANAFE, Benedetto Silvestri, matricola 502 pacco 24.
[32] Sorgeva in corrispondenza degli attuali numeri 50-52 di corso Ercole I d’Este, in prossimità dell’incrocio con via Guarini.
[33] ASFe, ANAFE, Benedetto Silvestri, matricola 502 pacco 24. Altra copia in ASDFE, Residui ecclesiastici, S. Caterina Martire, mazzo N, n. 28.
Pubblicato su “MuseoinVita” | 2 | dicembre 2015