Così, dai dati di cui disponevo, provavo a dedurre
mentalmente altri dati, e da questi altri ancora,
finché non riuscivo a proporre eventualità che
in apparenza non c’entravano per niente
con quello di cui stavamo discutendo.
E le buttavo lì, senza parere.
I. Calvino, Le Cosmicomiche, 1965
1. Oggetto: Studio di piede sinistro, Stoccarda, Staatsgalerie, Graphischesammlung
Nella collezione Koenig-Fachsenfeld, oggi confluita nella Staatsgalerie di Stoccarda, si conserva un disegno (fig. 1) che da oltre un secolo è attribuito a Francesco del Cossa[1]. Rappresenta il piede sinistro di una figura stante, la quale indossa una lunga veste che arriva poco sopra la caviglia.
Il nome di Cossa è scritto sul verso del foglio: “Francesco Cossa (Ferrar.)”. Gli inventari della collezione Fachsenfeld riportano che il disegno fu acquistato a Bologna dal conte Franz von Koenig von Fachsenfeld nel 1899. Faceva parte della raccolta di Francesco Giusti, ma poiché nei cataloghi di quest’ultima collezione il nome di Cossa non compare mai[2], dobbiamo pensare che il riferimento spetti al conte in persona, o a un suo collaboratore. In ogni modo, è stato proposto solo alla fine del XIX secolo.

Fig. 1, Artista fiorentino della seconda metà del XV secolo, Studio di piede sinistro, 1470 ca., Stoccarda, Staatsgalerie (già attr. a Francesco del Cossa)
È opinione comune che l’attribuzione a Cossa sia in rapporto con il dipinto raffigurante la musa Polimnia (fig. 2) che giunse a Berlino nel 1895, e subito venne riferito all’artista ferrarese da Wilhelm von Bode[3]. La Polimnia infatti calza una scarpa dalla foggia molto simile, poggia il piede su un parapetto ed è colta dal basso.
L’autore della Polimnia è sconosciuto, al pari della sua provenienza. Oggi non è più ritenuta opera di Francesco del Cossa, ma di un pittore più anziano. Il foglio di Stoccarda, già riferito allo stesso artefice della Polimnia, continua invece a essere considerato di Cossa. Anzi, è tuttora ritenuto un caposaldo della sua produzione grafica e non sembrano esserci dubbi sulla sua paternità.

Fig. 2, Artista ferrarese, Polimnia, 1455-60 ca., Berlino, Gemäldegalerie, a destra dettaglio
2. Difficoltà dell’attribuzione a Francesco del Cossa

Fig. 3, Francesco del Cossa, Figura di paggio vista di spalle, 1469 ca., Londra, British Museum (© Trustees of the British Museum)
Almeno due argomenti ostano a una attribuzione così certa.
Il corpus grafico di Cossa è molto ristretto. L’unico altro disegno riconducibile all’artista con fondamento è l’Uomo di spalle del British Museum di Londra (fig. 3). La sua attribuzione è ancora più recente: acquistato dal museo britannico nel 1952 come opera di scuola ferrarese, venne assegnato al Cossa da Andrea Bacchi nel 1986[4]. Anche in questo caso (e a ragione) la critica è concorde, a causa delle stringenti analogie con gli affreschi di Schifanoia, che sono opera certa del Cossa.
I disegni di Londra e di Stoccarda sono molto diversi. Su questa prima, ma già decisiva difficoltà, torneremo più avanti.
Secondo problema, il disegno di Stoccarda non corrisponde a nessuna opera pittorica nota del Cossa. La soluzione più simile è naturalmente il San Floriano oggi alla National Gallery di Washington (fig. 4), uno degli scomparti del polittico Griffoni già in San Petronio a Bologna[5]. Floriano è colto dal basso, è vero, ma le differenze sono molte e la corrispondenza è soltanto indiretta.
Ci sono speranze di trovare l’opera corrispondente, un dipinto per il quale il disegno di Stoccarda si possa considerare uno studio preparatorio? Poche, a mio avviso.
Il disegno infatti cela una ambiguità di fondo. Il piede è scorciato dal basso, di modo che possiamo vedere una parte della suola, il bordo della veste e insinuare lo sguardo un poco sotto il mantello; eppure al tempo stesso possiamo vedere anche il piano superiore del parapetto, come se lo vedessimo dall’alto. Poiché il punto di osservazione è posto in basso, il parapetto dovrebbe nascondere parte della pianta e del tallone (come accade appunto nella Polimnia), che invece restano perfettamente visibili.

Fig. 4, Francesco del Cossa, San Floriano, 1472-73, Washington, National Gallery of Art, a destra dettaglio
Come è possibile? Evidentemente il disegno è uno studio dettagliato di un particolare, ma non è la parte superstite di un vero e proprio cartone preparatorio. Il foglio è stato ritagliato su tutti i lati – difatti i margini si interrompono in maniera molto netta – ma non credo che in origine comprendesse l’intera figura: se così fosse, fatte le debite proporzioni, avrebbe dovuto sfiorare il metro e mezzo in altezza. Inoltre i contorni non sono incisi né bucherellati, né vi sono altre tracce di un trasporto del disegno su diverso supporto.
3. Disegno vs pittura
Torniamo al San Floriano di Washington e alla sua somiglianza con il disegno di Stoccarda. Afferma Bacchi che «è soprattutto l’identico modo in cui un’impeccabile scienza prospettica si fonde con un impiego sensibilissimo della luce che modella morbidamente le forme per mezzo di pennellate sottili e vibranti, a non lasciare dubbi circa la loro comune autografia»[6].
Anche sorvolando sulle differenze (Floriano tiene sollevato il piede destro, calza uno stivale e indossa una veste corta al ginocchio, i bordi della veste sono più spessi, eccetera), dal punto di vista tecnico l’esecuzione del disegno e del dipinto sono completamente diverse.
Nel San Floriano la forma è costruita attraverso infinite piccole pennellate, che inseguono e accompagnano il depositarsi della luce sulle superfici. Lo stesso tracciato grafico molto fitto ritorna nel foglio del British Museum, e nel disegno che affiora nella Santa Chiara e nella Santa Caterina d’Alessandria (fig. 5) della collezione Thyssen-Bornemisza[7], e ancora in quello soggiacente ai santi del polittico Griffoni, oggi divisi tra la National Gallery di Londra e la Pinacoteca di Brera[8].
Questo modo di frammentare il segno mi sembra all’opposto della limpida sintesi ottenuta nel Piede di Stoccarda per mezzo delle ampie acquerellature e delle larghe stesure di biacca.
4. Visti dal basso
Il foglio di Stoccarda analizza piede e veste come fossero oggetti su un piano illuminato, con fredda e geometrica scientificità. Quanto furono realmente interessati, Francesco del Cossa e gli artisti ferraresi della seconda metà del Quattrocento, a queste indagini prospettiche?
Cossa sembra avere tentato questa strada solo nel San Floriano di Washington, intorno al 1473. Tipicamente le sue figure, specie quando sono inserite in nicchie, misurano lo spazio sporgendo il piede oltre il parapetto, ma con la punta rivolta verso il basso, rifuggendo lo scorcio che compare nel disegno di Stoccarda. Si vedano le già citate Santa Chiara e Santa Caterina Thyssen-Bornemisza, i due angeli (fig. 6) reggicandelabro ai lati della Madonna col Bambino nella chiesa del Baraccano a Bologna (1472), fino al San Vincenzo Ferrer dello stesso polittico Griffoni, oggi alla National Gallery (fig. 7).
- Fig. 5, Francesco del Cossa, Santa Caterina d’Alessandria, 1467-68, Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya
- Fig. 6, Francesco del Cossa, Madonna col Bambino (part.), 1472, Bologna, Santa Maria del Baraccano
- Fig. 7, Francesco del Cossa, San Vincenzo Ferrer, 1472-73, Londra, National Gallery
Nemmeno gli affreschi di Schifanoia (1469) presentano soluzioni simili al disegno di Stoccarda, neanche nella fascia superiore che pure è posta a quasi quattro metri dal suolo.
Solo gli spettatori che assistono al palio nel mese di Aprile sono colti di sotto in su, e infatti sporgono il piede dal parapetto, la punta rivolta verso il basso[9].
Ercole de’ Roberti, collaboratore di Cossa all’epoca del San Floriano di Washington, si mostra ancor meno a suo agio con soluzioni prospettiche simili a quelle del foglio di Stoccarda. Vi accenna, timidamente, soltanto nel Sant’Antonio Abate del Museum Boymans van Beuningen di Rotterdam (fig. 8), parte del polittico Griffoni al pari del cossesco San Floriano.
- Fig. 8, Ercole de’ Roberti, Sant’Antonio Abate, 1472-73, Rotterdam, Museum Boymans-Van Beuningen
- Fig. 9, Vicino da Ferrara, San Girolamo, 1475 ca., Firenze, collezione Berenson
- Fig. 10, Vicino da Ferrara, San Girolamo, 1480-85, Ferrara, Pinacoteca Nazionale

Fig. 11, dettaglio della fig. 10
Ritroviamo invece una soluzione particolarmente prossima al disegno di Stoccarda nel San Girolamo di Vicino da Ferrara (fig. 10), conservato alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara (1475 circa)[10]. La figura di Girolamo, inserita in una nicchia, è colta dal basso e possiamo vedere il bordo della veste e il piede sinistro parzialmente nascosto dal piedistallo.
Ma nelle opere più tarde questa soluzione scompare. Nelle tavolette con San Giovanni Battista e San Girolamo della collezione Berenson (fig. 9), così come nei cinque Santi domenicani già nella raccolta Wesendonck, le figure misurano lo spazio sporgendo il piede sul parapetto, con la punta in basso, come i personaggi di Cossa.
A monte di tutte queste variazioni sul tema si trova la Polimnia della Gemäldegalerie di Berlino (fig. 2). Fra le opere finora discusse, è senza dubbio quella più vicina al disegno di Stoccarda per inquadratura, posa, foggia della calzatura. Si tratta di uno tra i dipinti più misteriosi del Quattrocento ferrarese.
Ne ignoriamo l’autore, e ne ignoriamo la provenienza poiché quasi nessuno ormai ritiene che potesse far parte delle Muse destinate allo studiolo di Belfiore[11]. La sua data di esecuzione oscilla a seconda delle proposte, ma in genere non valica il 1460. Possiamo quindi affermare che la soluzione del piede scorciato che si sporge dal parapetto e della veste vista dal basso penetra a Ferrara attraverso la Polimnia, alla quale a più riprese si sono avvicinate (a ragione) la Melpomene e la Euterpe di Budapest, ugualmente colte dal basso.
La Polimnia è concordemente indicata come la prova di un artista al corrente dei fatti centroitaliani e fortemente alternativo ai modi di Cosmè Tura, a quel tempo in forte ascesa. Ma ho l’impressione che questa “alternativa” sia la conseguenza di una formazione non solo diversa, ma anche più antica. Insomma, credo che possa essere una prova estrema di un artista toscano di formazione e di nascita quale Angelo Maccagnino, morto nel 1456. Non ho nessuna idea invece riguardo la sua provenienza, e già mi pento di avere sfiorato questo problema complicatissimo e forse, allo stato attuale, insolubile[12].
5. Fuori Ferrara

Fig. 12, Cosmè Tura, Sant’Antonio da Padova, 1484, Modena, Galleria Estense
Torniamo ancora al disegno di Stoccarda. Le pieghe della veste vista dal basso, il piede scorciato che sporge dal parapetto. Questa soluzione, declinata in diverse forme dall’autore della Polimnia, da Cossa, da Vicino, può essere stata concepita in ambito ferrarese?
No, a mio avviso. Credo si tratti di una soluzione nata in un ambiente culturale diverso, e poi diffusa a Ferrara dove ha incontrato una certa fortuna. Devono essere intese in questo senso le difficoltà incontrate da Cosmè Tura, che mostra di conoscere questa invenzione ma di non coglierne pienamente il senso. Nel Sant’Antonio da Padova della Galleria Estense (fig. 12) di Modena, Tura forza la prospettiva ed esaspera, piuttosto che ricomporre, le contraddizioni del foglio di Stoccarda. Il saio è colto dal basso di modo che possiamo vederne le pieghe posteriori, ma il pavimento improvvisamente si ribalta – e con esso il piede che vi poggia – e le linee convergono verso un punto di fuga molto più alto. La stessa cosa avviene nel più piccolo Sant’Antonio da Padova del Louvre (fig. 13). Entrambi i quadri appartengono all’ultima fase dell’attività di Tura: il primo è del 1484, il secondo di poco precedente[13]. Nessuna traccia di soluzioni simili nella sua produzione anteriore.

Fig. 13, Cosmè Tura, Sant’Antonio da Padova, 1480 ca., Parigi, Musée du Louvre, a destra dettaglio
Penso quindi che l’idea di cui ci stiamo occupando sia stata diffusa a Ferrara attraverso l’autore della Polimnia di Berlino e della Euterpe e della Melpomene di Budapest: rispetto alle altre Muse variamente candidate a ornare le pareti dello studiolo di Belfiore, esse sono più calme, più essenziali e senza ornato. Più toscane insomma, se questa semplificazione ci è permessa. E più vicine al disegno di Stoccarda.
6. Firenze

Fig.14, Maso Finiguerra, Giovane intento a disegnare, 1455 ca., Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 115F
Spostando il disegno di Stoccarda in ambito fiorentino, le sue coordinate stilistiche si fanno meno sfuggenti: sintesi e chiarezza dei volumi, incidenza netta della luce, contorno deciso e tagliente alla Maso Finiguerra. Non si può fare a meno di notare che la scarpa è identica a quelle calzate dai numerosi garzoni ritratti da quest’ultimo, compreso il più noto ovvero il Giovane seduto intento a disegnare (fig. 14) corredato dalla scritta “vo esere uno buono disegnatore”[14].
Non vogliamo scambiare la diffusione della moda con la parentela stilistica (replicando lo stesso procedimento adottato per la Polimnia), ma vale la pena ricordare che un gruppo di disegni oggi tornati nella cerchia di Finiguerra era assegnato da Longhi a Ercole de’ Roberti[15]. A chi si azzardasse a ragionare su differenze di tecnica, Longhi avvertiva di non lasciarsi «irretire da un pregiudizio troppo classificatorio e normativo dei modi grafici. Nei maggiori soprattutto, la schiavitù a queste classificazioni non è mai esistita, trattandosi per essi della facoltà sovrana di ravvivar personalmente il movente originario di ciascuna formula: quando cioè essa non era ancor tale». Non credo che la scelta tecnica si possa considerare una “schiavitù”, né che si possa scindere dall’intenzione stilistica.
È un fatto che penna, acquerello e biacca delineino il piede e la veste nel disegno di Stoccarda non diversamente dal Bue sdraiato di Finiguerra agli Uffizi (744 Orn), e che nella pittura fiorentina del XV secolo troviamo paragoni più numerosi e più calzanti.

Fig. 15, Paolo Uccello, Beato Jacopone da Todi e San Girolamo, 1435 ca., Prato, Duomo
Una indicazione verso la Toscana è fornita, anche se indirettamente, da Mauro Natale e Giovanni Sassu, che invocavano per la Polimnia la «conoscenza dei modelli figurativi fiorentini, come prova l’impostazione delle gambe della musa e l’idea di nascondere il piede d’appoggio dietro il parapetto che appare del tutto simile ad opere come lo Jacopone da Todi di Paolo Uccello»[16]. Il paragone con il San Girolamo, anch’esso affrescato nel Duomo di Prato, colto dal basso e inserito all’interno di una nicchia, è altrettanto efficace (fig. 15).
Siamo intorno al 1435, ovvero a monte di ogni esperienza ferrarese fin qui ricordata.
Entriamo nel cuore del problema con il ciclo degli Uomini e donne illustri (fig. 16) affrescato da Andrea del Castagno intorno al 1450 a villa Carducci, alle porte di Firenze[17]. Sulle prime, il confronto tra il disegno di Stoccarda e la Sibilla libica dà l’impressione di avere risolto il problema. È identica la forma e la posizione del piede, che sporge dal parapetto che nasconde il tallone (come detto in apertura). Nemmeno in questo caso la corrispondenza è perfetta: la veste della Sibilla è leggermente più lunga, la fibbia della chiusura è diversa. Tuttavia le somiglianze sono più che notevoli.
Soprattutto, il ciclo di villa Carducci propone una magnifica serie di variazioni sul tema della figura vista dal basso, inserita in una nicchia, che misura lo spazio sporgendosi davanti alla finta architettura. In queste sperimentazioni prospettiche Andrea del Castagno si muove perfettamente a suo agio, come l’autore del disegno di Stoccarda.

Fig. 16, Andrea del Castagno, Sibilla Cumana (a sinistra e in alto a destra), Dante Alighieri (particolare, in basso a destra), 1448-51, Firenze, Uffizi
Il catalogo di Andrea del Castagno disegnatore è molto instabile, cosa che impedisce di procedere con una ipotesi di attribuzione. Inoltre il foglio sembra leggermente più moderno, dunque difficile da riferire a un artista già scomparso nel 1457. Ma certo sembra andare nella stessa direzione delle sue opere più tarde, quali la Trinità e i santi Girolamo, Paola ed Eustochia dell’Annunziata, o il Monumento equestre di Niccolò da Tolentino di Santa Maria del Fiore (1456), dove l’ambiguità prospettica è gestita con disinvoltura.

Fig. 17, Domenico Veneziano, San Giovanni Battista e san Francesco, 1455 ca., Firenze, Museo di Santa Croce
I Santi Giovanni Battista e Francesco (fig. 17) affrescati verso il 1455 da Domenico Veneziano nella cappella Cavalcanti in Santa Croce (oggi spostati nell’annesso Museo) non indossano calzature, ma rappresentano uno degli episodi più importanti nell’economia del nostro discorso. Inquadrati dal basso, i due santi sono collocati all’interno di una profonda nicchia, si vede il margine inferiore del saio di Francesco, mentre il piede destro di Giovanni sporge dal parapetto. La forza dell’invenzione racchiude le sperimentazioni prospettiche e luministiche condotte a Firenze nella prima metà del Quattrocento.
Discutendo l’affresco, Hellmut Wohl ne sottolineava la dipendenza da altre famose figure scorciate fiorentine: il Giovanni Acuto di Paolo Uccello, gli affreschi di Andrea del Castagno a villa Carducci, su su fino alla Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella. Una storia tutta fiorentina. Tra le derivazioni successive, lo studioso ricordava le tarsie della sacrestia delle Messe (ne parleremo tra poco) e la Polimnia di Berlino (!)[18].
Dagli esempi finora discussi discendono le figure scorciate dal basso di Benozzo Gozzoli, che utilizza questa soluzione soprattutto per i santi e i profeti affrescati nei pilastri di ingresso delle cappelle. È il caso del San Severo (eseguito forse da un suo collaboratore) nello sguincio della finestra al centro del coro in San Francesco a Montefalco, nel 1452. All’affresco è collegato un disegno del British Museum (fig. 18), di migliore qualità[19].

Fig. 18, Benozzo Gozzoli, San Severo, 1452 ca., Londra, British Museum (© Trustees of the British Museum)

Fig. 19, Benozzo Gozzoli, Elia, 1465, San Gimignano, Sant’Agostino
Credo si possano leggere come un’appendice tarda di quanto detto finora altre figure di Benozzo, quali il San Bartolo e il Profeta Elia (fig. 19) affrescati nella chiesa di Sant’Agostino a San Gimignano (1465), rispettivamente nel pilastro sinistro e destro della cappella maggiore, edizioni aggiornate delle figure di Andrea del Castagno a villa Carducci.
Tra le opere più rimpiante del XV secolo vi sono gli affreschi del coro di Sant’Egidio a Firenze, eseguiti nel 1439 da Domenico Veneziano e dai suoi aiuti, tra i quali figurava il giovane Piero della Francesca.
Nella scena con la Regina di Saba che venera il sacro legno, episodio delle celebri Storie della Croce realizzate da Piero in San Francesco ad Arezzo, un personaggio (fig. 20) indossa una scarpa identica a quella del foglio di Stoccarda. La figura in questione è un palafreniere, e non è un caso. La nostra scarpa è una calzatura povera, da abbigliamento quotidiano. La indossano i garzoni di Finiguerra, e la Poliminia di Berlino sulla gamba nuda proprio perché dedita ai lavori agricoli; ma certo non la indossa nessuno degli Uomini illustri di Andrea del Castagno, né il San Floriano del Cossa che sfoggia un elegante stivaletto in pelle sopra la calza rossa. Ecco perché, come già detto sopra, non credo che il foglio di Stoccarda sia un cartone preparatorio ma uno studio condotto in bottega, per una figura stante che poi indosserà una scarpa più adeguata.
Tornando a Piero, consideriamo almeno la Resurrezione di Sansepolcro (fig. 21), dove il piede di Cristo (senza scarpa) appoggia sul bordo del sarcofago proprio come quello di Stoccarda, con la stessa consumata naturalezza e consapevolezza. Siamo intorno al 1458, circa quindici anni prima del San Floriano di Cossa che riprende, in controparte, la posa del Cristo di Piero (fig. 22).
- Fig. 20, Piero della Francesca, La regina di Saba adora il sacro legno (part.), prima del 1466, Arezzo, San Francesco
- Fig. 21, Piero della Francesca, Resurrezione (part.), 1458 ca., Sansepolcro, Pinacoteca Comunale

Fig. 22, Piero della Francesca, Resurrezione, Sansepolcro, Pinacoteca Comunale (a sinistra); Francesco del Cossa, San Floriano (in controparte), Washington, National Gallery of Art (a destra)
Inoltrandoci negli anni Sessanta del Quattrocento, incontriamo le figure di Amos (fig. 23) e Isaia ai lati dell’Annunciazione nella parete orientale della sacrestia delle Messe, in Santa Maria del Fiore (1464-65). Le tarsie dell’Annunciazione e del San Zanobi furono eseguite da Giuliano da Maiano, su cartoni forniti da Maso Finiguerra (suo cognato). I due Profeti laterali non sono documentati, e il loro disegno più mosso è ormai concordemente riferito ad Antonio Pollaiolo, che evidentemente subentrò nell’impresa dopo la morte di Maso nell’agosto del 1464[20].
I Profeti della sacrestia delle Messe sono stati ripetutamente messi in relazione con le opere fin qui trattate, riconoscendo il loro modello negli Uomini illustri di Andrea del Castagno e nei Santi Giovanni Battista e Francesco di Domenico Veneziano[21].
Inutile nascondersi che nella Firenze del Verrocchio e di Donatello tornato da Padova, questa dimostrazione di sapienza prospettica appare attardata. Non a caso i due Profeti vanno a completare un ciclo impostato da un artista della generazione precedente (Finiguerra), e per di più nella tecnica della tarsia, da sempre campo privilegiato delle sperimentazioni prospettiche.

Fig. 23, Antonio Pollaiolo e Giuliano da Maiano, Amos, 1464-65, Firenze, Santa Maria del Fiore, Sacrestia delle Messe, a destra particolare
In chiusura dobbiamo ricordare la Madonna della Misericordia (fig. 24) affrescata da Domenico Ghirlandaio nella cappella Vespucci nella chiesa di Ognissanti. Siamo intorno al 1470: Vasari pone l’opera in apertura del catalogo del pittore, nato nel 1449 («furono le sue prime opere in Ognisanti la cappella de’ Vespucci»)[22]. Si tratta dell’ultima apparizione della nostra idea, ormai superata dai tempi ovvero dalla pittura meno attenta alla scansione geometrica dei volumi e più dedita all’eleganza della linea.
Eppure credo che il disegno di Stoccarda debba cadere in un momento non distante dall’affresco di Ognissanti. Il modo di preparare la carta e le acquerellature rosate ricordano alcuni celebri esempi del Ghirlandaio, a partire proprio dal Ritratto di vecchio del Nationalmuseum di Stoccolma.
Domenico è solito stendere la biacca in un reticolo di pennellate più sottili, ma quando il segno si fa meno controllato, come nella parte inferiore del Ritratto di vecchia con cappuccio di Windsor Castle, le distanze si accorciano (anche tenendo conto che il disegno di Windsor prepara un personaggio della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, quindici anni dopo l’affresco di Ognissanti).

Fig. 24, Domenico Ghirandaio, Madonna della Misericordia, 1470 ca., Firenze, Ognissanti, a destra particolare
7. Conclusioni
In conclusione, si è concluso poco. E la vecchia didascalia “Francesco del Cossa” era certo più attraente di “Artista fiorentino della seconda metà del XV secolo”. Nella sua aridità, questa definizione rischia di sminuire la trama di rapporti che lega Firenze a Ferrara, una trama su cui gli studi si sono più volte concentrati. Secondo la critica, tutti gli artisti fiorentini che abbiamo trattato hanno lasciato tracce sull’arte ferrarese: l’influenza di Andrea del Castagno su Cosmè Tura (Salmi 1957), quella di Domenico Veneziano sulle Muse di Belfiore, le tangenze toscane di Vicino da Ferrara, il soggiorno ferrarese di Piero della Francesca, l’operosità fiorentina di Francesco del Cossa.
L’attribuzione a quest’ultimo rendeva il disegno di Stoccarda il punto di incontro di tutte queste direttrici, uno snodo incredibilmente suggestivo che sembrava rendere profetici alcuni vecchi giudizi critici: «strongly influenced by Domenico Veneziano, Castagno and Baldovinetti; and to some extent by Benozzo Gozzoli»[23]. Ma va detto che queste influenze toscane, sempre vagheggiate, sono difficili da verificare: perduti gli affreschi di (o che Vasari attribuiva a) Piero della Francesca, impalpabile l’influsso di Domenico Veneziano, la compagine dei fiorentini sicuramente operosi a Ferrara si riduce al solo Maccagnino, sempre sfuggente[24].
Spostare il disegno da Cossa a un artista fiorentino non significa abbattere questo castello di supposizioni, ma al contrario fornirgli un nuovo seppur labile appoggio. Se il disegno è fiorentino, è pur vero che vi sono applicazioni ferraresi della stessa idea: la Polimnia, il San Floriano del Cossa, il San Girolamo di Vicino. I modi della sua importazione a Ferrara rimangono ignoti, anche se allo stato attuale delle conoscenze il principale indiziato, è inutile nasconderselo, rimane Maccagnino.
Se abbiamo ragione, la questione segna solo un episodio del complesso legame tra Ferrara e Firenze. La questione va approfondita, e molto è stato fatto. Ma occorre stabilire con precisione i punti di partenza.
Note
[1] Sul disegno, cfr. almeno R. Deusch in Unbekannte Handzeichnungen alter Meister 15-18 Jarhundert, Sammlung Freiherr Koenig-Fachsenfeld, cat. della mostra a cura di R. Deusch (Basilea, Kunsthalle, 28 ottobre – 26 novembre 1967), Basel 1967, p. 12; G. Thiem in Sammlung Schloss Fachenfeld. Zeichnungen, Bozzetti und Acquarelle aus fünf Jahrhunderten in Verwahrung der Staatsgalerie Stuttgart, cat. della mostra a cura di U. Gauss et al. (Stoccarda, Stuttgarter Gelerieverein, 16 aprile – 16 luglio 1978), Stuttgart 1978, p. 144; A. Bacchi, Francesco del Cossa, Soncino 1991, p. 102; V. Sgarbi, Francesco del Cossa, Milano 2003, p. 233; C. Cavalca in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, cat. della mostra a cura di M. Natale (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 23 settembre 2007 – 6 gennaio 2008), Ferrara 2007, p. 410 (con bibl.).
[2] Collezioni di Disegni e Cartoni posseduti dal fu Francesco Giusti in Bologna, Bologna 1864; ripubblicato in M.G. Montaldo Spigno, Le Collezioni d’arte del Marchese Marcello Durazzo d’Ippolito, Genova 2001, pp. 137-184.
[3] W. Bode, Der Herbst von Francesco Cossa in der Berliner Galerie, “Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen”, XVI, 1895, pp. 88-90; sulla Polimnia vedi A. Bacchi in Le muse e il principe. Arte di corte nel Rinascimento padano, cat. della mostra a cura di A. Mottola Molfino, M. Natale (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 20 settembre – 1 dicembre 1991), Modena 1991, pp. 408-416; J. Dunkerton, Cosmè Tura’s painting technique, in Cosmè Tura. Painting and Design in Renaissance Ferrara, cat. della mostra a cura di S.J. Campbell (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum, 30 gennaio – 12 maggio 2002), Milano 2002, pp. 107-124; G. Agostini in Gli Este a Ferrara. Una corte nel Rinascimento, cat. della mostra a cura di J. Bentini (Ferrara – Castello Estense, 14 marzo – 13 giugno 2004), Cinisello Balsamo 2004, p. 324.
[4] A. Bacchi, Una proposta per il Cossa disegnatore, “Paragone”, XXXVII, 431-433, 1986, pp. 24-28; G. Sassu in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., p. 406; la scheda del British Museum afferma che Arthur Ewart Popham aveva ipotizzato un legame con Cossa, pur senza esplicitarlo a stampa.
[5] Il legame tra il disegno e il San Floriano è colto da D. Benati, La pittura rinascimentale, in La Basilica di San Petronio in Bologna, Bologna 1984, II, p. 170; sul polittico vedi ora C. Cavalca, La pala d’altare a Bologna nel Rinascimento. Opere, artisti e città 1450-1500, Cinisello Balsamo 2014, pp. 136-151, 334-336.
[6] Bacchi, Francesco del Cossa cit., p. 102.
[7] In origine erano ai lati dell’Annunciazione di Dresda (cfr. Cavalca, La pala d’altare cit., pp. 151-160, 331-332).
[8] Si vedano le riflettografie pubblicate da G. Poldi, G.C.F. Villa, Il morello e il segno. Spigolature per un atlante iconografico, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., p. 172.
[9] Non possiamo pronunciarci sugli affreschi sulla volta della cappella Garganelli in San Pietro a Bologna, oggi perduti. Le fonti descrivono figure scorciate, i cui esiti Daniele Benati (Benati, La pittura rinascimentale cit., p. 170, con maggiore prudenza di quanta gliene attribuisca la critica successiva) immagina vicini a quelli del nostro disegno. In assenza delle opere, raccogliamo le riserve di Bacchi, (Bacchi, Francesco del Cossa cit., p. 102), che ricorda come Pietro Lamo (1560 circa) specificasse che le figure principali erano sedute. La difficoltà incontrata nel coniugare lo scorcio dal basso della veste con la posizione dei piedi nella lastra tombale di Domenico Garganelli, Museo Civico Medievale di Bologna, sembra allontanare il disegno di Stoccarda da Cossa, invece del contrario (C. Cavalca in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., p. 410).
[10] Dopo aver conosciuto numerose attribuzioni, è stato ricondotto a Vicino da Ferrara da D. Benati, Per il problema di “Vicino da Ferrara” (alias Baldassarre d’Este?), “Paragone”, XXXIII, 393, 1982, pp. 13-14 (1475 circa); D. Benati in J. Bentini (a cura di), La Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Catalogo generale, Bologna 1992, pp. 77-79 (1475 circa); lo datano al 1475-1480 M. Molteni, Cosmè Tura, Milano 1999, p. 195; C. Cavalca in Gli Este cit., p. 218; G. Sassu in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 503-504; su Vicino vedi anche S. Buganza, Intorno a Baldassarre d’Este e al suo soggiorno lombardo, “Solchi”, 9, 2006 [2007], pp. 3-69.
[11] La vicenda di questo ambiente e dei dipinti che a esso si collegano – con diversi gradi di probabilità – è troppo complessa per essere ripercorsa in questa sede (cfr. almeno Le muse cit., passim; F. Lollini in Cosmè Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 244-246, 270-276; da ultimo T. Shephard, Echoing Helicon. Music, Art and Identity in the Este Studioli, Oxford 2014, pp. 30-62).
[12] I dati documentari su Maccagnino sono raccolti in F. Veratelli, Maccagnino (Maccagnino), Angelo (Angelo da Siena), in Dizionario biografico degli italiani, LXVI, Roma 2006, pp. 786-788; M. Toffanello, Le arti a Ferrara nel Quattrocento. Gli artisti e la corte, Ferrara 2010, pp. 60-62; cfr. anche Dunkerton, Cosmè Tura’s cit., pp. 107-113; F. Lollini, La nascita di un nuovo linguaggio, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 242-247, e da ultimo M. Danieli, Angelo Maccagnino, in S. Castri (a cura di), I monti di Dio, Torino 2014, pp. 157-159; non mi convince G. Peretti, Una tavola ferrarese di metà Quattrocento (e un’ipotesi per Angelo del Maccagnino), “Verona Illustrata”, 14, 2001, pp. 5-19, né A. De Marchi in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 493-494.
[13] La datazione del dipinto di Modena si evince da una lettera di Tura del 1490, nella quale chiede il pagamento di quadri eseguiti sei anni prima (Molteni, Cosmè Tura cit., p. 187). Sul quadro del Louvre vedi Molteni, Cosmè Tura cit., pp. 160-166; J. Manca, Cosmè Tura: the Life and Art of a Painter in Estense Ferrara, Oxford 2000, pp. 148-149; M. Toffanello in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 352-356.
[14] L. Melli, Maso Finiguerra. I disegni, Ospedaletto (Pisa) 1995, nn. 68, 30, 34-36, 39, 55, 57, 66, 69, tutti conservati agli Uffizi.
[15] R. Longhi, Ampliamenti nell’Officina ferrarese, 1940 [ed. Firenze 1956], pp. 133-134; R. Bartoli in Il disegno fiorentino del tempo di Lorenzo il Magnifico, cat. della mostra a cura di A.M. Petrioli Tofani (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 8 aprile – 5 luglio 1992), Cinisello Balsamo 1992, p. 63; F. Ames-Lewis, J. Wright, Drawing in the Italian Renaissance Workshop, London 1983, p. 58; Molteni, Cosmè Tura cit., p. 215.
[16] M. Natale, G. Sassu, In mostra, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., p. 46; purtroppo non sappiamo nulla dell’aspetto dei Giganti affrescati a monocromo da Paolo sulla facciata di casa Vitaliani a Padova, una decina di anni più tardi.
[17] Sulla cronologia e sulla committenza del ciclo cfr. J.M. Dunn, Andrea del Castagno’s “Famous men and women”, Ph.D. Diss., University of Pennsylvania, 1990, e M. Hansmann, Andrea del Castagnos Zyklus der “Uomini famosi” und “Donne famose”. Geschichtsverständnis und Tugendideal im florentinischen Frühhumanismus, Münster 1993, e i recenti M. Israëls in La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460, cat. della mostra a cura di B. Paolozzi Strozzi (Firenze, Palazzo Strozzi 23 marzo – 18 agosto 2013), Firenze 2013, pp. 390-392, e A. Dunlop, Andrea del Castagno and the limits of painting, London 2015, pp. 69-89.
[18] H. Wohl, The Paintings of Domenico Veneziano. A Study in Florentine Art of the early Renaissance, Oxford 1980, p. 85 n. 32.
[19] D.C. Ahl, Benozzo Gozzoli, New Haven 1996, pp. 49-79 (per il disegno del British Museum, pp. 60, 231); cfr. anche L. Melli in Benozzo Gozzoli allievo a Roma, maestro in Umbria, cat. della mostra a cura di B. Toscano, G. Capitelli (Montefalco, Museo Comunale, 2 giugno – 31 agosto 2002), Cinisello Balsamo 2002, p. 212.
[20] L’attribuzione a Pollaiolo era proposta già da S. Ortolani, Il Pollaiuolo, Milano 1948, pp. 193-194, poi argomentata da M. Haines, La Sacrestia delle Messe nel Duomo di Firenze, Firenze 1983, pp. 173-175; vedi anche M. Haines, in Nel segno di Masaccio. L’invenzione della prospettiva, cat. della mostra a cura di F. Camerota (Firenze, Galleria degli Uffizi, 10 ottobre 2001 – 20 gennaio 2002), Firenze 2001, p. 106; A. Galli in Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento, cat. della mostra a cura di A. De Lorenzo, A. Galli (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 7 novembre 2014 – 16 febbraio 2015), Milano 2014, p. 54.
[21] Fino da G. Pudelko, Studien über Domenico Veneziano, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, IV, 4, 1932/1934 [1934], p. 187; cfr. Haines, La Sacrestia cit., p. 174, n. 28; Wohl, The Paintings cit., p. 85 n. 32: «the only Florentine examples after Domenico Veneziano of di sotto in su arches seen from the side and containing monumental figures are the intarsia panels with the prophets Amos and Isaiah on either side of the Annunciation in the sagrestia delle messe of the Duomo».
[22] R.G. Kecks, Domenico Ghirlandaio, Firenze 1998, pp. 145-152; J.K. Cadogan, Domenico Ghirlandaio. Artist and artisan, New Haven 2000, pp. 187-189.
[23] B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance, Oxford 1932, p. 154.
[24] Seguendo la scansione di Vasari, Piero fu a Ferrara intorno al 1449-1450, e lasciò affreschi nel Castello e nella chiesa di Sant’Agostino, dei quali non rimane alcuna memoria; la presenza di Piero, sempre enfatizzata dalla critica, in realtà non sembra così decisiva, ma le posizioni di chi segnala questo dato di fatto (ad esempio Mauro Minardi e Fabrizio Lollini in Cosmè Tura e Francesco del Cossa cit., pp. 190, 243-244) non sono tenute in gran conto (cfr. da ultimo A. Angelini, Piero della Francesca, Milano 2014, pp. 114-120).
Pubblicato su “MuseoinVita” | 2 | dicembre 2015