Si presentano in questa sede alcune novità riguardanti il Cristo mostrato al popolo della Pinacoteca Nazionale di Ferrara (inv. 205, fig. 1), a lungo attribuito al ferrarese Giovanni Bonati e di recente restituito a Giovanni Baglione da Giuseppe Porzio[1].
Occorre fare un breve riepilogo dei pochi passaggi di proprietà del dipinto che si concludono con il suo ingresso in Pinacoteca nel 1839. Nei cataloghi del museo si trovano notizie contrastanti in merito alla provenienza e alle circostanze dell’acquisizione. Giordano Viroli nel 1992 informa che fu Giuseppe Saroli a cederlo alla Pinacoteca in cambio del perduto San Rocco che implora la Vergine di liberare Ferrara dalla peste di Guercino, travisando un’informazione riportata da Giuseppe Boschini nelle sue annotazioni sulle Vite di Baruffaldi[2]. Se nei primi repertori si ricorda genericamente uno scambio, è in quello del 1887 che si fa il nome di Filippo Pasini, anche se il catalogo del 1926 riporta erroneamente che questi lo donò al museo[3]. Posto che lo scambio sia realmente avvenuto (Boschini scrive a soli sette anni di distanza dall’episodio), per il Cristo mostrato al popolo va ribadita la provenienza Pasini, già sinteticamente denunciata da Maria Angela Novelli[4]. Lo chiarisce infatti uno stralcio del testamento di Saroli reso noto da Lucio Scardino: egli pensava inizialmente di donare alla Pinacoteca il San Rocco che aveva «acquistato a caro prezzo dal defunto Pasini»[5]. Questi, infatti, possedeva il Guercino perché ottenuto cedendo alla Pinacoteca il Cristo mostrato al popolo.

Fig. 1, Giovanni Baglione, Ecce Homo, 1604, Ferrara, Pinacoteca Nazionale
Dalla collezione dell’antiquario Filippo Pasini e del fratello Luigi transitarono dipinti celebri come la Madonna col Bambino e santi di Cosmè Tura oggi al Musée Fesch di Ajaccio e le due Muse poi Sacrati Strozzi, oggi nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara[6]. Se dalle note delle Vite de’ pittori di Girolamo Baruffaldi pare di capire che i Pasini trattassero prevalentemente materiale ferrarese[7], la lettura di un opuscolo celebrativo della famiglia permette di precisare che la raccolta si era formata tra Ferrara e Roma[8]. Luigi infatti risiedeva nella capitale che divenne il quartier generale dei maneggi d’arte dei due ferraresi. Ampliando la ricerca al territorio romano si scopre che i fratelli non trattavano esclusivamente materiale ferrarese, o comunque reperito a Ferrara: nella collezione Kress entra, ad esempio, una tavoletta del cosiddetto Maestro della Vita del Battista, che i Pasini acquistarono a Roma nella vendita della collezione Sterbini[9].
È possibile che il Cristo mostrato al popolo di Baglione, ceduto alla Pinacoteca di Ferrara come opera di Giovanni Bonati, fosse stato acquistato dai Pasini sul mercato romano.
In alternativa, e forse più probabilmente, si può ipotizzare che fosse giunto a Ferrara ab antiquo, presumibilmente con la collezione di qualche Legato o di un membro del suo seguito. Nel corso di un esame ravvicinato, chi scrive ha rilevato, sulla medaglietta posta sul copricapo dello sgherro, la presenza della sigla IBF e della data 1604 (fig. 2), mai segnalate in alcuna scheda dedicata all’opera. Il rinvenimento rettifica la proposta di Porzio di una datazione prossima al 1608, anno di esecuzione della pala per il Pio Monte della Misericordia a Napoli. La sigla, da sciogliere in Ioannes Baglione Fecit, ha potuto forse far pensare ai precedenti proprietari o ai curatori della Pinacoteca alla firma del pittore ferrarese Giovanni Bonati. Inoltre, la scarsa nitidezza della terza cifra della data potrebbe avere generato una lettura come 1664, anno in grado di suffragare l’attribuzione a Bonati, da poco giunto a Roma[10].

Fig. 2, particolare di fig. 1
Come ha notato Porzio, l’insostenibilità dell’attribuzione a Bonati è evidente. Se, per assurdo, si prendesse per buona una lettura della data come 1664, essa sarebbe comunque inaccettabile per il ferrarese, che in quell’anno aveva già frequentato le botteghe di Guercino e di Pier Francesco Mola, gli influssi dei quali mancano totalmente nel dipinto. Sono l’aspetto marcatamente caravaggesco e certi caratteri “morelliani” del Cristo (in particolare lo sguardo languido e gli occhi socchiusi) a ricondurre il dipinto a Giovanni Baglione nei primissimi anni del secolo. Interessante ricordare quanto notato da Fabrizia Puca relativamente all’uso di Baglione di firmare i propri dipinti e cioè l’abitudine a farlo soprattutto nelle opere destinate a committenti importanti[11]. Nello stesso 1604 l’artista esegue diverse opere per il cardinale Paolo Sfondrato e una per papa Clemente VIII[12].
Lo stato di conservazione del Cristo mostrato al popolo non è particolarmente buono. La pellicola pittorica è diffusamente sollevata e presenta varie piccole cadute di colore, le più vistose delle quali interessano un’area vicina allo sterno di Cristo e parte del manto. Non è documentato alcun restauro, come conferma anche la presenza di un vecchio strato di vernice ingiallita. In alcune parti questa è assente e lascia intravedere l’impasto originario, come avviene sul panno candido che cinge i fianchi di Cristo. Sul retro della tela, oltre a un bollo in ceralacca frammentario in cui a fatica si legge “Comunità di Ferrara”, è tracciato a mano il numero tre, certamente un riferimento inventariale[13]. Si rileva inoltre la presenza di lacerti ormai illeggibili di un foglio scritto, un tempo incollato al retro e poi strappato.
Come si è detto, la lettura della data presenta alcune difficoltà relativamente alla terza cifra che, però, per ovvie ragioni, non può che essere uno zero. Per fugare ogni dubbio basteranno alcuni confronti con opere del Baglione cronologicamente prossime.
Di poca utilità sono le tre palette di gusto arpinesco commissionate da Sfondrato per Santa Cecilia in Trastevere e dipinte nello stesso 1604[14], prodotti tipici della Controriforma, piuttosto tradizionali e meramente devozionali, utili, secondo le teorie del cardinale, a incoraggiare le giovani a intraprendere la vita monastica[15]. Se poste a confronto con il Cristo mostrato al popolo, le tele mostrano la capacità di Baglione di dipingere su differenti registri contemporaneamente, adattandosi in maniera versatile alle richieste dei committenti[16].
Risulta più convincente il confronto col Cristo in meditazione sulla Passione (Roma, Galleria Borghese, fig. 3), stimolato dalla scoperta da parte di Michele Nicolaci della data 1606, che permette di anticiparlo rispetto al 1610 proposto da Roberto Longhi[17]. Si tratta di un dipinto in cui il naturalismo caravaggesco è ancora manifesto, come mostrano il realismo della natura morta con gli strumenti della Passione, l’uso “costruttivo” della luce che definisce la figura di Cristo mentre lascia in ombra il volto dell’aguzzino, la sua mano dalle dita tozze e callose. I confronti col nostro dipinto possono partire proprio da questo dettaglio, che trova corrispondenza nella mano altrettanto rude dello sgherro ferrarese: entrambe umili e vere, dalle unghie sporche per i lavori quotidiani.

Fig. 3, Giovanni Baglione, Cristo in meditazione sulla Passione, 1606, Roma, Galleria Borghese
Un’altra affinità riguarda i volti di Cristo: stesso mento appuntito, stessa bocca carnosa socchiusa, stesso naso fiero. Varia la direzione dello sguardo, che nel dipinto ferrarese è rivolto verso il basso e accentua la tipica fisionomia «pellirossa»[18] di ascendenza arpinesca, frequente in Baglione. Ma il Cristo Borghese è evidentemente più maturo, più levigato e finito e rivela come nuove componenti si siano aggiunte al linguaggio del pittore. In particolare è stata notata l’influenza reniana nell’espressione estatica e rapita di Gesù e nella gamma cromatica schiarita[19]. La versione ferrarese è connotata da una pennellata meno accurata e mimetica, che lo pone in relazione, ad esempio, col piccolo rame raffigurante I santi Paolo e Stefano (Digione, Musée Magnin), commissionato da Sfondrato intorno al 1604[20]. Nel torso di Cristo, che richiama la postura del San Giovanni di collezione privata datato 1600[21] e, di riflesso, quella “in scarto” dei giovinetti nei primi dipinti di Caravaggio, si generano pieghe che acquistano profondità e realismo grazie alla minuziosa indagine luministica, con un chiaroscuro che accentua la ruvidità della pelle. Nel Cristo Borghese risalta invece una idealizzante levigatezza.
Nel quadro di Ferrara la luce si rivela più cruda e drammatica al punto da marcare spietatamente le arcate sopraccigliari di Cristo i cui occhi vengono contornati da uno spesso alone d’ombra, accentuandone l’espressione di sconforto; soprattutto l’illuminazione rileva ogni singola ruga e imperfezione sul volto dello sgherro.
Anche in questo caso, come nota Nicolaci a proposito del dipinto Borghese rileggendone l’iconografia[22], non si è di fronte a un momento di scherno ma viene forse rappresentata la conversione dello sgherro. La luce tragica è rivelazione, come conferma l’espressione sorpresa ma meditabonda, priva di crudeltà, di colui che ha capito chi ha davanti. E la direzione del suo sguardo è tutta verso la fonte che l’emana.

Fig. 4, Giovanni Baglione, Amor sacro e Amor profano, Roma, 1602, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini
Osservando questo personaggio singolarmente grottesco si potrebbe essere distolti dal pensiero di un’autografia baglionesca per l’assenza, nel corpus dell’artista, di figure ed espressioni altrettanto caricate. Ciò è vero fino a un certo punto. Nella versione del 1602 dell’Amor sacro e Amor profano (Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, fig. 4) compare, infatti, un volto dalle caratteristiche analoghe, quello del demonio (che alcune letture, credo un po’ forzate, hanno voluto riconoscere nel ritratto di Merisi[23]). Pur nell’opposta angolatura e nel differente scorcio, sono affini la forma squadrata del cranio dalla mascella prominente e gli occhi grandissimi e sgranati contornati da occhiaie livide; ancora, le profonde rughe che circondano la bocca socchiusa a mostrare i denti tornano in entrambe le figure, così come l’orecchio a sventola, praticamente intercambiabile non fosse per la punta ferina di quello Barberini. Confronti si possono stabilire anche col volto della serva Abra che compare in varie redazioni del tema di Giuditta. Le fitte grinze solcate d’ombra e l’espressione grottesca compaiono in entrambi i personaggi, appartenenti ai più bassi livelli sociali.
Assonanze si avvertono anche con la figura dello sgherro che regge il manto di Cristo nell’incisione di analogo soggetto di Jan Sadeler I (fig. 5), tratta da un disegno perduto di Christoph Schwartz[24]. Con quello condivide la forma della testa, l’inclinazione, la bocca carnosa e socchiusa, lo sguardo attento accentuato dal gonfiore delle occhiaie. La stessa idea del copricapo, dal quale fuoriesce la zazzera disordinata, sembra aver origine da questa figura. Si può mantenere ancora un momento l’attenzione sul copricapo poiché è lì che Baglione sceglie di appuntare la medaglietta con data e firma. Un ninnolo che, forse solo per coincidenza, si lega al ricordo delle Madonne da appuntare al cappello che il pittore avrebbe dovuto portare a Orazio Gentileschi da Loreto e che effettivamente gli consegnerà, ma in piombo anziché in argento, come ricorda irritato il pisano nel verbale del famoso processo a Caravaggio del 1603[25].

Jan Sadeler I, Ecce Homo (incisione)
Elemento curioso nel Cristo mostrato al popolo di Ferrara è la scelta insolita di nascondere le mani di Gesù. Tale dettaglio allontana il dipinto da esempi celebri e successivi, pur se di poco, quali l’Ecce Homo attribuito a Caravaggio (Genova, Palazzo Bianco) e quello di Ludovico Cardi detto il Cigoli (Firenze, Palazzo Pitti), eseguiti per Massimo Massimi, ma anche dal citato dipinto Borghese. La mancata esibizione delle mani lega forse il quadro ferrarese al Cristo deriso del Cavalier d’Arpino (Roma, San Carlo ai Catinari), dipinto che Baglione conosceva bene e che descrive nella vita dedicata al Cesari, artista che inoltre guardò con attenzione in altre circostanze[26].
La postura, con la schiena inclinata in segno di sottomissione e lo scarto mesto del capo, avvicinano la figura a quella di un Isacco rassegnato al sacrificio (si pensi al famoso dipinto di Cigoli a Palazzo Pitti) che, non a caso, è prefigurazione cristologica o, tutt’al più, a un martire. Tant’è che lo stesso Baglione conferisce simile atteggiamento anche al San Sebastiano curato da un angelo del Palmer Museum of Art (Pennsylvania State University)[27]. Se ne ricorderà ancora a vent’anni di distanza nel San Sebastiano curato dagli angeli (Roma, Madonna dell’Orto, 1624), la cui posa ripete in modo più puntuale, pur se a figura intera, quella del nostro Cristo mostrato al popolo[28].
Note
[1] G. Porzio, Dipinti napoletani del Seicento nelle collezioni dell’Ermitage, in F. Cappelletti e I. Artemieva (a cura di), La pittura italiana del Seicento all’Ermitage. Ricerche e riflessioni, Firenze 2012, pp. 167-182, in particolare p. 175. L’interesse nei confronti del dipinto è maturato durante alcune ricerche sul Seicento ferrarese inerenti alla mia tesi di laurea magistrale, Giuseppe Avanzi (1645–1718), un pittore nella Ferrara di secondo Seicento, discussa presso l’Università di Bologna con Barbara Ghelfi e Daniele Benati, che desidero ringraziare anche per il proprio parere riguardo all’attribuzione del dipinto a Giovanni Baglione.
[2] G. Viroli, in J. Bentini (a cura di), La Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Catalogo generale, Bologna 1992, pp. 198-199, scheda n. 233. In realtà, Boschini (in G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, vol. II, ed. a stampa Ferrara 1846, p. 459, nella nota) cita solamente un «amatore» che in cambio ottiene il San Rocco e 100 scudi in contanti.
[3] G. Fei, Pinacoteca municipale di Ferrara. Catalogo dei quadri, Ferrara 1866, p. 6; G. Fei, Pinacoteca municipale di Ferrara. Catalogo dei quadri, Ferrara 1878, p. 18; G. Fei, Pinacoteca municipale di Ferrara. Catalogo dei quadri, Ferrara 1887, pp. 18-19; A. Magrini, La Pinacoteca comunale di Ferrara, Ferrara 1926, p. 48.
[4] C. Brisighella, Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara, ed. a stampa a cura di M.A. Novelli, Ferrara 1991, p. 207 nota n. 10.
[5] G. Agostini, L. Scardino (a cura di), Inventari d’arte. Documenti su dieci quadrerie ferraresi del XIX secolo, Ferrara 1997, p. 255. Il testamento di Giuseppe Saroli è conservato nell’Archivio di Stato di Ferrara, Archivio privato Massari, busta 148, 7/Z fasc. 1745 all. I.
[6] G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, vol. I, ed. a stampa Ferrara 1844, rispettivamente p. 75 nota 1, p. 81; G. Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi. I dipinti restituiti a Ferrara, Milano 2005, pp. 74-81, in particolare pp. 76-77.
[7] G. Boschini, in Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. I, cita ancora: di Mazzolino un Dio Padre (p. 130) oggi al museo di Ponce (Puertorico) dal lascito Kress (Catalogo dei dipinti italiani di XV e XVI secolo, p. 77, n. inv. K1205, consultabile online sul sito della Kress Foundation); una Madonna col Bambino, san Giuseppe e san Rocco sempre di Mazzolino (p. 130); due dipinti ascritti ad a Ercole de’ Roberti (pp. 143-144); un San Pietro e un San Paolo di Girolamo da Carpi (p. 402); varie tavole di Roselli (p. 409). In Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., vol. II, ricorda due dipinti di Gaspare Venturini (p. 46). Come documentato dal Getty Provenance Database (consultabile online) sembrano di provenienza Pasini anche la Tersicore del Museo Poldi Pezzoli (Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi cit., pp. 76-77) e il Concerto di Lorenzo Costa oggi alla National Gallery di Londra.
[8] Pasini di Ferrara e Padova, Firenze–Livorno 1896, c. 17 n. n. L’opuscolo è conservato nella collezione privata di Andrea Pasini, che ringrazio per avermelo gentilmente mostrato.
[9] Maestro della vita del Battista, Battesimo di Cristo, National Gallery of Art di Washington. In Catalogo dei dipinti italiani di XIII e XIV secolo della collezione Kress, n. inv. K264, p. 69, consultabile online sul sito della Kress Foundation.
[10] Per Giovanni Bonati si vedano E. Riccomini, Il Seicento ferrarese, Ferrara 1969, pp. 50-53; L. Ficacci, Giovannin dei Pio: Notizie su Giovanni Bonati, pittore del cardinale Carlo Francesco Pio di Savoia, in J. Bentini (a cura di), Quadri rinomatissimi, il collezionismo dei Pio di Savoia, Modena 1994, pp. 199-226; E. Negro, I seguaci di Guercino a Ferrara, in E. Negro, N. Roio (a cura di), La scuola del Guercino, Modena 2004, pp. 49-71.
[11] Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, a cura di M. Di Sivo e O. Verdi, catalogo della mostra (Roma, 11 febbraio–15 maggio), Roma 2011, scheda n. 11 a cura di F. Puca, p. 202.
[12] G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori, architetti, ed intagliatori dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel 1641, Roma 1642, edizione Roma 1935, p. 402. Per i rapporti tra Baglione e Sfondrato: H. Economopoulos, Il cardinale Paolo Sfondrato committente di Giovanni Baglione, in R. Vodret (a cura di), Roma al tempo di Caravaggio. 1600 –1630. Saggi, Milano 2012, pp. 145-169.
[13] La lettura del bollo è stata resa più agevole grazie al confronto con quelli apposti sul verso di altri dipinti, dei quali esistono le immagini presso l’Archivio Fotografico della Soprintendenza, a Bologna. Ben conservati e leggibili sono, ad esempio, quelli sul retro delle tavole di Garofalo rappresentanti Storie della vita di San Silvestro (Ferrara, Pinacoteca Nazionale, nn. inv. 174-175). In essi si legge chiaramente la dicitura «Comunità di Ferrara», posta a incorniciare lo stemma del Comune. Lo si è riscontrato anche dietro alla Natività e santi di Ludovico Mazzolino (n. inv. 150) e alle due tavolette del Maestro dei Dodici Apostoli (nn. inv. 115, 116) provenienti da Sant’Antonio in Polesine (dipinti acquisiti tutti nel 1836, poco prima del quadro di Baglione). Come mi fa notare Silvia Villani, l’assenza del cappello cardinalizio dallo stemma e la dicitura “Comunità di Ferrara” rimandano probabilmente al periodo napoleonico. Il bollo, quindi, non dovrebbe avere a che fare col più tardo ingresso dei dipinti nella Pinacoteca Comunale ma sarà precedente, connesso alla soppressione degli ordini religiosi. L’ipotesi è che i dipinti delle chiese soppresse non inviati a Milano, venissero marchiati ancora in loco per notificarne la proprietà del Comune dopo lo scioglimento dell’ordine cui appartenevano. In seguito alcuni di essi vennero venduti a privati (in modo più o meno lecito) per ricuperare somme di denaro utili ad altri scopi. Rientrarono quindi in Pinacoteca per donazione, acquisto o scambio, in modo documentato (come nel caso del Baglione ceduto da Pasini nel 1839) o senza lasciare tracce consistenti. Valentina Lapierre, che ringrazio per avermi spinto ad approfondire la questione, mi comunica inoltre di aver riscontrato lo stesso bollo in alcuni documenti del 1810 contenuti nel Fondo Magnoni Trotti (Archivio di Stato di Ferrara), evidenza che depone a favore di una datazione entro la parentesi napoleonica.
Si rafforza così l’ipotesi che il Cristo mostrato al popolo abbia provenienza locale, pur non potendo apparentemente identificarlo nelle descrizioni fornite dalle guide settecentesche di Ferrara.
Diviene meglio comprensibile, quindi, la tradizionale attribuzione a Giovanni Bonati, artista assai noto a Ferrara, grazie alle biografie di Baruffaldi e Cittadella, ma praticamente un estraneo dal punto di vista stilistico: nella pressoché totale assenza di opere di confronto, il dipinto gli fu riferito per via della sigla che porta, coincidenzialmente identica a quella di Giovanni Baglione.
Desidero ringraziare, inoltre, Corinna Giudici e Anna Stanzani per avermi aperto le porte dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza.
[14] Esse rappresentano i santi Valeriano, Tiburzio, Massimo, Urbano e Lucio, la Madonna col Bambino e sant’Agnese, la Madonna col Bambino e santa Caterina d’Alessandria. Sono documentate da un pagamento del 16 dicembre 1603 (V. Martinelli, L’Amor divino tutto ignudo di Giovanni Baglione e la cronologia dell’intermezzo caravaggesco, “Arte antica e moderna”, 5, 1959, p. 91). Sulla tela con santa Caterina si legge inoltre la data 1604 (Economopoulos, Il cardinale Paolo Sfondrato cit., p. 156).
[15] Economopoulos, op. cit., p. 156.
[16] M. Nicolaci, Sul naturalismo di Giovanni Baglione. Il Cristo in meditazione sulla Passione del 1606, in F. Curti, M. Di Sivo e O. Verdi (a cura di), “L’essercitio mio è di pittore”. Caravaggio e l’ambiente artistico romano, Roma 2012, pp. 487-508, in particolare p. 490; G. Papi, Sull'”Intermezzo caravaggesco” di Giovanni Baglione“, in G. Papi, Giovanni Baglione. Judith and her maidservant, TEFAF 2014 Maastricht, New York 2014, pp. 51-59, in particolare p. 52. Qui si ridiscute anche la questione relativa alla durata del cosiddetto “intermezzo caravaggesco” e, in particolare, la diffusa ma limitante idea relativa alla sua conclusione nel 1603, con il processo Caravaggio–Baglione.
[17] Nicolaci, Sul naturalismo cit. Il dipinto fu già datato al 1606 per ragioni stilistiche da G. Fama di Dio, Per una ricerca della “maniera propria” di Giovanni Baglione: 1600–1620, “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna”, 11, 1987, pp. 49-50.
[18] C. Guglielmi, Intorno all’opera pittorica di Giovanni Baglione, “Bollettino d’Arte”, 4, 1954, p. 314.
[19] Nicolaci, Sul naturalismo cit., p. 506.
[20] Economopoulos, Il cardinale Paolo Sfondrato cit., p. 160; M. Smith O’Neil, Giovanni Baglione. Artistic reputation in Baroque Rome, Cambridge 2002, pp. 205-206, n. 27. Entrambi i dipinti hanno visto precedenti proposte di datazione al 1608: per il rame: R. Möller, Der Römische Maler Giovanni Baglione, Monaco, 1989, pp. 112-113; per il Cristo di Ferrara vedere: Porzio, Dipinti napoletani cit., p. 175.
[21] Roma al Tempo di Caravaggio. 1600–1630, Opere, a cura di R. Vodret, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 16 novembre 2011 – 5 febbraio 2012), Milano 2012, scheda n. VI.1 a cura di V. Markova, p. 140.
[22] Nicolaci, Sul naturalismo cit., p. 504.
[23] H. Röttgen, Quel diavolo è Caravaggio. Giovanni Baglione e la sua denuncia satirica dell’Amore terreno, “Storia dell’Arte”, 79, 1993, pp. 326-340.
[24] I. De Ramaix, The illustrated Bartsch, vol. 70, parte 1 (supplement): Johan Sadeler I, New York 1999, numero 0.205.
[25] Gentileschi è chiamato a deporre anche relativamente a una lettera offensiva che inviò a Baglione, dopo che questi era tornato da un viaggio a Loreto (1602) portandogli medagliette in piombo anziché in argento. Il tono della lettera viene giustificato da Orazio proprio per via di quell’episodio. Egli afferma che «quelle Madonne che me diede di d[ett]o Giovanni erano di piombo, che se portano nel cappello […]». Si veda Martinelli, L’Amor divino cit., pp. 84, 88.
[26] G. Baglione, Le Vite de’ pittori, p. 256. Esiste un dipinto di simile impostazione eseguito da Federico Zuccari per la chiesa di San Giovanni Battista di Ancona intorno al 1605, in cui Cristo appare a figura intera (C. Acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari, fratelli pittori del Cinquecento, vol. II, Padova 1998, pp. 262-263).
[27] Ma anche in un’ulteriore versione del San Sebastiano curato dall’angelo, nota in due repliche, una pubblicata in Smith O’Neil, Giovanni Baglione cit., p. 148, l’altra in M. Marini, Il «Cavalier Giovanni Baglione, Pittore», quattro quadri e un documento inediti, in S. Macioce (a cura di), Giovanni Baglione (1566–1644). Pittore e biografo di artisti, Roma 2002, pp. 16-26.
[28] È forse Bellori che, nelle postille manoscritte alle Vite di Baglione definisce questo dipinto e altri due rappresentanti un San Bonaventura e un Sant’Antonio «buoni imitati dal naturale et sono le megliori opere di sua mano imitando il Caravaggio» (Baglione, Le vite de’ pittori cit., edizione Roma 1935, p. 404; Martinelli, L’Amor divino cit., p. 83). Spunti naturalistici sono colti in opere come questa da Nicolaci, Sul naturalismo cit., p. 503.
Pubblicato su “MuseoinVita” | 2 | dicembre 2015
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