Una guida per il nuovo Schifanoia
(e un abbozzo di catalogo per le nuove opere)
Pubblicato su “MuseoinVita” | 11-12 | 2020/21
Si è concluso lo scorso ottobre (2021 ndr.) il processo di rinascita del Museo Schifanoia che ha portato ad un nuovo allestimento museale, radicalmente diverso dal precedente.
Un percorso composto da quattro fasi essenziali. Si è partiti dal restauro architettonico e dell’adeguamento antisismico dell’edificio borsiano (2018-2020), il più bisognoso di cure. Il secondo passaggio, in piena pandemia, ha visto la riapertura del Salone dei Mesi e delle Sale delle Virtù e delle Imprese (giugno 2020) con un allestimento che, nella sala prima delle due, ha visto un’anticipazione della tipologia di allestimento effettivamente poi messo in campo in occasione del terzo, importantissimo, step: l’inaugurazione del nuovo percorso dell’ala cosiddetta quattrocentesca o borsiana (maggio 2021).
Con la riapertura dell’ala trecentesca, albertiana o albertina, come avrebbero preferito certi personaggi della “cultura” locale, si è completato un percorso di recupero che, nelle nostre più rosee previsioni, avrebbe comportato una chiusura ben più ampia dell’intero palazzo rispetto ai poco meno dei quattro anni che sono stati necessari. Il merito di un simile risultato va a tutti i colleghi e le maestranze coinvolte: una forza motrice fatta di passione e competenza che ha consentito di raggiungere questo obiettivo in tempi inconsuetamente celeri nell’ambito del settore pubblico, in particolare degli enti locali.
Naturalmente, non tutto è riuscito alla perfezione, ma l’avere restituito alla collettività il “Museo della città” in questa inedita forma è fonte di grande soddisfazione.
Quello che ha riaperto, lo anticipavamo in questa stessa sede nel numero scorso, è un Museo profondamente rinnovato nell’aspetto e nel suo contenuto museografico.
L’intento di questo scritto è quello di accompagnare i visitatori nell’esplorazione delle 21 sale che caratterizzano il nuovo percorso ed evidenziarne sinteticamente contenuti e significati.
L’ala di Alberto V d’Este
Sala 1
La visita prende avvio dalla prima sala posta al piano terra della cosiddetta ala di Alberto d’Este[1].
Nello spazio che abbiamo voluto libero da impedimenti di sorta, il punto focale è costituito dalla proiezione del video Schifanoia. Dagli Este al Museo, realizzato da Tryeco 2.0: un racconto per immagini dell’evoluzione di questo straordinario palazzo, della sua ascesa, della sua caduta e delle sue tante resurrezioni. Ci è parso infatti essenziale far comprendere ai visitatori che il museo che si apprestano a visitare è stato la residenza privilegiata della famiglia che dominò Ferrara: la famiglia d’Este.
Sala 2
Il nuovo Museo Schifanoia propone un percorso di visita che intreccia la storia dell’edificio storico con le collezioni civiche, specie in quest’ala del palazzo, quella creata alla fine del Trecento e via via rinnovata.
Nella seconda stanza, riprendendo lo spunto offerto dal video di apertura, gli esemplari di cartografia storica di Ferrara consentono di collocare Schifanoia nel tessuto urbano di Ferrara: da una parte la pianta ottocentesca di Filippo Borgatti che raffigura la Ferrara di fine Cinquecento, dall’altra la mappa di Andrea Bolzoni in ben due edizioni. È possibile ammirare, peraltro, la lastra incisoria originaria e osservare da vicino l’universo di segni e solchi che dà origine alla stampa di riproduzione.
Gli oggetti raccolti a sinistra, invece, evocano le origini del Museo Civico. Il nucleo più antico si forma nel XVIII secolo presso l’Università a Palazzo Paradiso, al tempo luogo di conservazione della storia della città. Atto di nascita è, nel 1758, l’acquisizione della ricca raccolta del numismatico Vincenzo Bellini, qui ricordata dal catalogo della sua collezione, esposto nella teca assieme agli oggetti appartenuti all’epigrafista Giuseppe Antenore Scalabrini e all’erudito Niccolò Baruffaldi le cui collezioni furono donate al Museo dal grande benefattore Gian Maria Riminaldi, figura che incontreremo alla fine del nostro percorso.
I due tondi in pietra sono legati invece all’ingegno spregiudicato del brillante erudito Girolamo Baruffaldi il quale commissionò queste opere nel Settecento fingendole opere antiche con l’intento di attribuire a Ferrara un’origine remota.
Riemergendo da questa stanza l’invito rivolto agli spettatori è quello di osservare gli affreschi che decorano le stanze: proseguendo nel percorso potranno ammirarli più da vicino e scoprire qualcosa su di essi.
Sala 3
Nella prima metà del Quattrocento Schifanoia assolve alla funzione di delizia, luogo immerso nel verde, dove le corti di Alberto e di Niccolò III trovavano ristoro e svago.
Evocano questa straordinaria civiltà, impregnata di eleganti e scintillanti cromie anche negli oggetti di uso quotidiano, le preziose testimonianze della ceramica graffita.
Proseguendo in questa sala è ancora centrale il parallelo con le collezioni storiche attraverso l’evocazione della figura di Giovanni Pasetti, straordinario studioso e collezionista: egli dedicò l’intera vita alla raccolta dei reperti ceramici estensi, catalogandoli e disegnandoli con cura estrema. Alla sua morte la sua straordinaria collezione fu acquisita nel 1935 dal Museo comunale. E’ ora possibile ammirarne a rotazione alcuni esemplari, posti a confronto con il suo catalogo personale, meticolosamente redatto nel corso della sua attività di collettore di memorie.
Dall’altro lato della stanza potete invece ammirare i manufatti ritrovati alla fine degli anni Ottanta del Novecento durante gli scavi condotti in queste stesse sale per restituire questa parte dell’edificio alla fruizione. Si tratta di ceramiche databili non molto oltre la metà del Quattrocento che documentano le prime fasi abitative di Schifanoia, quando i marchesi di Ferrara e le loro corti animavano la vita quotidiana di questo luogo, al tempo descritto come una gemma incastonata in un anello.
Sala 4
Leonello d’Este, marchese tra il 1441 e il 1450, è stata una figura centrale per lo sviluppo in senso rinascimentale della corte estense. La sala n. 4 è dedicata a lui, avviando una sorta di cronologia interna al percorso espositivo scandito dai duchi prima e dagli eventi storici vissuti dalla città.
Raffinato e colto umanista animato da uno spirito cosmopolita, alla sua energica figura si devono l’avvio di imprese straordinarie come il purtroppo smembrato Studiolo di Belfiore, celebre luogo di espressione della cultura umanistica estense.
La sua impronta non manca neppure a Schifanoia, come documentato dalle decorazioni murali in questa e nelle sale successive.
La raffinatezza degli Este originata dai gusti di Leonello è ben illustrata dalle preziose placchette per lo più provenienti da cofanetti d’avorio che sono esposti entrando sulla destra. Raffinati ornamenti in osso provenienti da specchi e cofanetti realizzati da botteghe del nord Italia che raffigurano a volte soggetti sacri, altre volte profani, come sequenze di coppie di giovani, offerti in dono in occasione di fidanzamenti e nozze. Hanno analoga funzione di contenitore di oggetti preziosi le cassettine decorate in pastiglia, un vero e proprio genere che accompagna la vita di corte fino a tutto il Cinquecento.
Il polittico di alabastro che trovate al centro della sala è un capolavoro della scuola inglese della metà del Quattrocento, specializzata nella lavorazione di questa materia e nella produzione di soggetti cristologici. Proveniente dalla chiesa di Sant’Andrea, è possibile che sia giunto a Ferrara per via diplomatica, nell’ambito degli scambi culturali e politici che gli Este intrattenevano con la corona inglese.
L’importanza del marchesato di Leonello per le arti è qui potentemente richiamata dalle medaglie che commissionò al grande Pisanello e che segnano, di fatto, la nascita del genere della medaglia celebrativa all’antica recante il ritratto del signore: di fatto l’avvio del Rinascimento a Ferrara e non solo. Al profilo all’antica di Leonello fanno da contrappunto sul rovescio immagini simboliche, scelte per esaltarne le virtù morali e il ruolo politico. Alcune simbologie, come ad esempio il “triplice volto”, letta spesso come esortazione alla prudenza e alla pace, si ritrova nelle decorazioni parietali delle successive sale che i visitatori possono ammirare da vicino percorrendo i soppalchi. L’effige di Leonello, come una sorta di icona identitaria, dalla numismatica andrà ad interessare, com’è noto, anche la pittura e, persino, la ceramica graffita, come prova il reperto esposto nella stessa vetrina.
La sala si chiude con un’altra testimonianza di grande raffinatezza: il frammento del Breviario personale del marchese, miniato da Matteo de’ Pasti negli anni quaranta e che rappresenta una delle più convinte riprese dall’antico in chiave di linguaggio moderno operato presso la corte estense.
Sale 5-8
Da questa sala e fino alla stanza n. 8 la collezione prende una pausa e lascia “parlare” il Palazzo: i soppalchi costruiti in occasione del restauro della fine degli anni Ottanta del secolo scorso consentono di ammirare da vicino le decorazioni dell’ala più antica di Schifanoia e comprendere le varie fasi realizzative.
Gli usi impropri cui il palazzo è stato sottoposto hanno portato allo stato che vedete, con distruzioni e riduzioni, come ad esempio nella sala 5, in origine di dimensioni molto maggiori rispetto alle attuali.
L’analisi delle decorazioni è su questo stesso numero analizzata a fondo da Dario De Cristofori, al quale articolo si rimanda per avere una visione d’insieme e lo stato aggiornato degli studi.
Sale 9-10
Nelle sale 9 e 10 riprende il racconto collezionistico, con le testimonianze provenienti dalle collezioni civiche. Qui, negli ambienti di passaggio tra i due corpi di fabbrica, quella tardo trecentesca e quella voluta da Borso d’Este attorno al 1465, è offerta al visitatore la possibilità di entrare in contatto con un avvenimento che ha mutato il destino di Palazzo Schifanoia: la riscoperta nell’Ottocento delle pitture murali del Salone dei Mesi. Un video e i disegni di Giuseppe Mazzolani evocano questo evento cardine per la storia dell’arte che, a partire dal 1820, porterà il mondo a ritrovare uno dei più grandi cicli decorativi del Rinascimento.
Nella sala successiva, invece, un applicativo interattivo – realizzato dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, l’Istituto di Studi Rinascimentali, la Regione Emilia-Romagna in collaborazione con i Musei di Arte Antica – consente di muoversi virtualmente nel Salone dei Mesi, scoprendo curiosità e dettagli, osservando le varie fasce che lo compongono, in modo tale da carpirne segreti e significati prima di arrivare all’interno di esso.
L’ala di Borso d’Este
Salone dei Mesi
Nel percorso museografico il Salone è il cuore pulsante del palazzo, esattamente come lo fu per Borso d’Este, marchese e poi duca di Ferrara tra il 1450 ed il 1471, quando tra il 1465 e il 1469 ampliò la dimora nata alla fine del Trecento ampliandola.
Una breve guida al nuovo allestimento di Palazzo Schifanoia non può prescindere quindi da questo luogo, anche se non intende assolutamente tracciarne sintesi storiche che si possono ritrovare altrove.
La nuova illuminazione, curata da Alberto Pasetti nel 2021, ha reso finalmente pienamente apprezzabile nella sua complessa fascinazione di mistero rinascimentale questo luogo. Un luogo che abbiamo voluto pressocché libero da impedimenti visivi e fisici, senza alcuna struttura se non quella dedicata all’illuminazione, al fine di agevolare la percezione della stupefacente ricchezza cromatica e formale delle decorazioni di Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti e gli altri, senza intaccare insomma la piena armonia di luogo “sacro” del Rinascimento che il Salone possiede per tutti coloro che amano l’arte.
Così, la fruizione del Salone è, concettualmente, il punto di snodo del nuovo Museo: dopo aver ammirato ciò che resta del palazzo di Alberto d’Este, aver “conosciuto” Leonello d’Este, è qui che il fruitore ha la possibilità di incontrare, in una forma altissima, le testimonianze più preziose di quello specifico espressivo che fu la scuola ferrarese negli anni di Borso d’Este. Se in passato il Museo di Schifanoia è stato una sorta di mal sopportata “appendice” alla visita del Salone, oggi le due entità si fondono, si integrano, in un dialogo di senso, di spazio e di lettura che sembra soddisfare molto i visitatori e che restituisce anche il senso originario, quello voluto da Borso, di questo spazio: un luogo dello stupore e del racconto.
Sala 12
Profano e ornato I: lo stile dell’epoca di Borso
Ambiente non meno prezioso del Salone dei Mesi è la Sala delle Virtù, la seconda stanza più importante di Schifanoia: era qui, infatti, che Borso d’Este concedeva udienza ai suoi visitatori. Ai propri ospiti, Borso offriva la visione di una sala stupefacente, dominata da un soffitto a lacunari e da un fregio con stucchi dorati e policromi.
In quest’ultimo si alternano gli scudi araldici estensi (con i gigli di Francia e l’aquila imperiale), le imprese del duca (come l’unicorno o il paraduro) e la rappresentazione delle Virtù, in forma di eleganti figure femminili. Noterete che, tra le qualità teologali (Fede, Speranza e Carità) e quelle cardinali (Prudenza, Fortezza e Temperanza), spicca l’assenza della Giustizia, condensata nella presenza fisica dello stesso duca, come nel mese di Marzo nell’adiacente Salone dei Mesi.
L’autore di questo prodigio è il padovano Domenico di Paris che, nel 1467, fu aiutato dal pittore Bongiovanni di Geminiano.
Il racconto del palazzo e quello delle collezioni, da qui in poi si fondono. Nelle teche si ammira infatti cosa è accaduto nell’età di Borso tra il 1450 e il 1471, data della morte del duca. In questo ventennio matura infatti uno stile basato su forme vorticose ed energiche, su spazi affollati che travalicano i confini della pittura, creando un linguaggio «profano e ornato», ricco ed espressivo. Ciò che si ammira nel Salone, insomma, anima anche le opere qui raccolte: dalle pagine della Bibbia della Certosa miniate da Guglielmo Giraldi alle ceramiche di uso quotidiano, fino alle medaglie celebrative nelle quali nasce e matura l’ossessione per il ritratto che caratterizza l’età di Borso. Queste ultime ci offrono uno spaccato singolare e prezioso della codificazione del ritratto del principe, ma anche le fattezze e l’urgenza simbolica di chi visse al fianco del grande Borso.
Sala 13
Profano e ornato II: lo stile dell’epoca di Borso
Il percorso espositivo prosegue laddove cominciavano gli appartamenti privati del duca, ovvero nella cosiddetta Sala delle Imprese, che prende il nome dal principesco fregio ligneo recante gli emblemi, o imprese, personali di Borso e il magnifico soffitto a cassettoni con decorazioni dorate, entrambi realizzati intorno al 1469.
Tra le imprese raffigurate si riconoscono, ripetuti più volte, i simboli cari all’immaginario borsiano: ad esempio il paraduro, che ricorda le bonifiche del territorio, il fonte battesimale o l’unicorno, entrambi rappresentazioni di purezza e prudenza, il fuoco, incarnazione della carità e dell’amore. Tali stemmi erano replicati anche sulle pareti, oggi purtroppo frammentarie.
Nelle vetrine il racconto della collezione prosegue con alcuni esempi di quella che è stata la maggiore delle eccellenze artistiche di Ferrara nel Quattrocento: la miniatura. Se nella sala precedente si è ammirata la sontuosa Bibbia della Certosa, qui, nella due grandi teche, sono esposti due dei 18 Corali eseguiti per i monaci dello stesso convento, progetto avviato per volere di Borso, nei quali emerge, ancora una volta, la maestria di Guglielmo Giraldi e della sua scuola.
Nella più piccola, invece, trovano posto il prezioso esemplare del Decretum Gratiani, originale libro stampato e miniato da Alessandro Leoni e altri allievi di Giraldi, e il piccolo ma scintillante Libro d’Ore: entrambi testimoniano il successo dell’arte ferrarese al di fuori del ducato, segnatamente a Padova e a Bologna.
Sala 14
La Ferrara di Ercole, verso uno stile “nazionale”
Alcune delle stanze del piano nobile, la sala 14 e 15 in particolare, documentano ciò che accadde a Schifanoia dopo gli Este e dopo la Devoluzione (1598), quando la proprietà fu rilevata dalle famiglie Romei e Tassoni tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700. Entrambe interverranno sull’edificio mutandone l’aspetto, come si coglie bene ancora oggi. Delle decorazioni estensi sopravvivono nei cassettoni del soffitto, al di sotto degli interventi seicenteschi, le imprese estensi stampate su carta e parte della decorazione parietale.
Le opere esposte si riferiscono invece all’età del governo (1471-1505) del successore di Borso, il fratellastro Ercole I, protagonista assoluto della vetrina numismatica a lui dedicata. Austero cavaliere dall’intensa religiosità e grande innovatore urbanistico, le fattezze di Ercole I e quelle della sua corte sono tramandate da una meravigliosa serie di medaglie e monete che restituiscono una sorta di ritratto di famiglia allargato.
A sinistra, troviamo la grande Madonna col Bambino e santi di Giovanni Antonio Bazzi, dipinta a Reggio Emilia, recente ingresso in deposito temporaneo delle collezioni civiche. La tela documenta una fase molto specifica della storia dell’arte emiliana, ovvero quando, alla fine del Quattrocento, la cultura figurativa estense, oltrepassando i confini cittadini, vive una nuova fase che, sull’esempio di Francesco del Cossa e di Ercole de’ Roberti, mira ora a una rinnovata e più statica monumentalità.
I volti vissuti ed espressivi presenti nella tela dialogano con la coeva scultura in terracotta, come ben testimonia la celebre Dolente esposta nella stessa stanza, opera di Guido Mazzoni, artista assai amato da Ercole I, tra i maggiori artisti emiliani di questo scorcio di anni.
Sala 15
La scultura a Ferrara tra sacro e profano I
Anche questa ambiente risente delle manomissioni settecentesche, registrabili nell’apertura di una loggia, poi murata, sulla parete nord, nella creazione di un fastoso sovraporta in stucco e di un ricco fregio dipinto che dialoga con la decorazione del soffitto.
In questa sala e in quella successiva, è proposto al visitatore un piccolo viaggio nella storia della scultura sacra a Ferrara nel Quattro e Cinquecento. Per questa disciplina non è possibile parlare di una scuola ferrarese, come per la pittura e la miniatura, ma di un crocevia di stili e tendenze che sarà animato dalla presenza in città di artisti forestieri.
La prima teca a sinistra mostra la preziosa Crocifissione attribuita a Paolo di Jacobello dalle Masegne, opera che ben descrive la prevalenza dello stile sinuoso ed elegante della cultura tardogotica di marca lombardo-veneta tra Tre e Quattrocento.
Domina la stanza il maestoso crocifisso ligneo. Verso il 1440-50 importanti commissioni pubbliche, come le statue di piazza di Niccolò III a cavallo e di Borso seduto, segneranno una svolta in senso rinascimentale grazie all’opera dei fiorentini Niccolò Baroncelli e Antonio di Cristoforo. Restaurato di recente, questo monumentale Crocifisso è stato attribuito da chi scrive a Nicolò Baroncelli pere le evidenti connessioni con il gruppo bronzeo della Cattedrale di Ferrara e per il forte debito, specie nel volto, alle marcate espressività del Donatello padovano.
La Madonna col Bambino di Antonio di Cristoforo, un tempo in Cattedrale, è una delle più sfortunate, eppure importanti, sculture presenti in Museo. Vittima del bombardamento del 1944, l’opera è stata ricostruita nel Novecento integrando le parti mancanti; essa dimostra quanto fosse pregno di simmetria e verosimiglianza l’orizzonte figurativo umanistico attorno alla metà del Quattrocento.
Opera una sintesi tra espressività e simmetria il cognato di Baroncelli, Domenico di Paris, come abbiamo già visto molto attivo per gli Este: la sua Madonna col Bambino è un delicato omaggio alla pittura coeva e a Francesco del Cossa in particolare.
Sala 16
La scultura a Ferrara tra sacro e profano II
L’ampia stanza era un tempo divisa in due ambienti distinti che costituivano la conclusione del palazzo voluto da Borso.
Della decorazione originale sopravvive, nella parete orientale, quindi di fronte all’ingresso tra le tue teche espositive, la frammentaria figura di un cavaliere a caccia (probabilmente lo stesso Borso) che, per tema e stile, appare coevo al Salone dei Mesi.
Il racconto della scultura a Ferrara prosegue con Sperandio Savelli, figura centrale dell’età di Ercole I, orafo e scultore di corte. Spetta a lui il grandioso Sarcofago di Prisciano Prisciani, commissionato nel 1473 circa dal figlio di questi, Pellegrino, l’ideatore del Salone dei Mesi. In quest’opera colpisce la sapienza sbalorditiva nell’esecuzione dei bassorilievi e la testimonianza sociale di una nuova classe dirigente che, non nobile, arriverà ad essere “prediletta dai re e cara agli dei”, come recita l’iscrizione. La qualità del bassorilievo è talmente alta che per giustificarla si è in passato scomodato l’ancora inafferrabile Cosmè Tura scultore.
Anche la coppia di sculture a figura intera, parte di un Compianto per ora sconosciuto, sono riconducibili a Sperandio e provengono da San Cristoforo alla Certosa. Gli occhi gonfi di lacrime di san Giovanni e il pianto trattenuto dell’Addolorata offrono al nostro sguardo empatia e commozione.
Al loro fianco, due Madonne col Bambino in terracotta poco note al grande pubblico evocano uno dei temi più cari alla cultura votiva e a quella figurativa estense. La prima, in particolare, è qui in deposito e proviene da via Saraceno. In attesa del restauro che le restituirà adeguata leggibilità possiamo ammirarne il tono confidenziale e al tempo stesso inconsueto che fa di questo scultura un corrispettivo plastico della pittura di pura espressione della Ferrara del 1480 circa, una sorta di parente del Maestro dell’Agosto, alias Gherardo da Vicenza.
Se gli apporti toscani proseguono alla fine del Quattrocento con Andrea della Robbia, nel secolo successivo si registra una svolta in senso monumentale, ben documentata dall’ultima opera della sala, la più magniloquente. Si tratta di una Madonna col Bambino, un tempo nell’oratorio dei Battuti Bianchi, che le fonti attribuiscono senza fondamento ad Alfonso Lombardi ma che condivide con questo artista, seguace dell’ultimo Raffaello, la propensione ad ampliare le forme rendendole imponenti. La datazione, però, appare più attardata e viaggia attorno alla metà, se non oltre, del Cinquecento.
Sala 17
La facciata di Schifanoia. Il potere politico nel Cinquecento, tra i duchi e la Devoluzione
Questa stanza è un’aggiunta voluta da Ercole I alla fine del Quattrocento. Nel corso dei restauri eseguiti nel 1976 la parete occidentale ha rivelato la presenza di lacerti della decorazione esterna della fabbrica borsiana, caratterizzata da elementi geometrici che simulavano un paramento marmoreo policromo, rendendo così evidente che la magnificenza di Schifanoia cominciava sin dall’esterno.
La ricostruzione della facciata originale nel video e il videomapping digitale proiettato sulla parete, entrambe realizzate da Tryeco 2.0, consento di comprendere la sorprendente imponenza. Mettete pure in pausa questo ascolto e riprendete dopo aver fruito di questa esperienza multimediale.
Il percorso di questa sala chiude idealmente l’età degli Este che si conclude a Ferrara nel 1598 con la Devoluzione della città allo Stato pontificio a causa della mancanza di eredi legittimi.
Le cosiddette Polene, trofei della guerra contro Venezia di Alfonso I, legano idealmente l’età di corte a quella della Devoluzione. Questi frammenti di navi veneziane saranno esposti in Cattedrale come testimonianza del forza ferrarese contro l’odiata Serenissima tanto in età di corte quanto in età pontificia.
Nelle vetrine potete ammirare i volti su medaglia degli ultimi signori della casata d’Este e il bellissimo testamento di Alfonso I per il quale, nel 1534, fu approntato un funerale che mutuava dalla corte francese usi e costumi. Nella vetrina successiva, le medaglie celebrano la trionfale presa di potere del Cardinale Legato Pietro Aldobrandini nel 1598 e l’edificazione di una possente fortezza pentagonale nel settore sud-ovest della città durante il pontificato di Paolo V (1605-1621). L’attivazione di una nuova zecca inserisce il territorio ferrarese nell’area di circolazione monetaria dello Stato Pontificio, così come l’uso di conii e punzoni che vi invito ad ammirare perché non sempre visibili nei musei del mondo.
Sala 18
Dipingere gli affetti: la pittura sacra tra Cinque e Seicento
La visita prosegue al piano terra, nelle sale che il recente restauro ha riportato alle originarie volumetrie.
Qui e nella stanza successiva sono esposte una selezione della Quadreria dell’ASP – Azienda Servizi alla Persona di Ferrara, depositata presso i Musei d’Arte Antica nel 1974, con opere che provengono dagli istituti religiosi attivi sul fronte dell’assistenza e che testimoniano non solo lo spirito solidale che contraddistinse Ferrara nel Cinque e Seicento, ma anche una porzione significativa dell’arte di questa città. Attraverso queste tele è possibile infatti documentare una stagione esaltante per la pittura locale, con la trasformazione dello stile che da soluzioni tradizionali (è il caso di Niccolò Roselli), si evolve tra natura e maniera (come accade nelle opere di Bastarolo), per giungere in età di Controriforma alle traiettorie incrociate, eppure contrapposte, dei due grandi della pittura di questi anni, il soave Scarsellino e il potente Carlo Bononi, fino alle formule neo cinquecentesche di Giuseppe Caletti.
Questa sala può essere letta cogliendo particolari o soluzioni espressive. Vi proponiamo un esempio. La Decollazione del Battista di Bastarolo è tavola dipinta intorno al 1572: qui il pittore si mostra capace di coniugare eleganza e veemenza, colore e movimento. Domina e guida il nostro sguardo non tanto la testa mozzata del Battista, ma il gesto del carnefice che sta rinfoderando la spada dopo aver sferrato il colpo fatale. La cultura della Maniera o del cosiddetto Manierismo prediligeva le composizioni complesse, i movimenti ad effetto al pari dei colori smaltati e accesi.
Il confronto con lo stesso soggetto dipinto da Scarsellino è esplicativo. Sono passati circa 30 anni dal dipinto di Bastarolo, siamo nel 1603-05, ed è cambiato tutto. Scarsellino elabora un vero e proprio poema dell’attimo, raffigurando il momento immediatamente successivo alla Decollazione. Il dramma si fa pregnante e la stessa Salomè resta colpita dalla scena, portandosi le mani agli occhi per non osservare ciò che sta accadendo. Laddove Bastarolo evocava compiacendosi, Scarsellino mostra e rievoca, in linea con la pittura naturalistica seicentesca.
Sala 19
La pittura a Ferrara nel Sei e Settecento
La seconda metà del Seicento e tutto il Settecento rappresenta un periodo di oggettiva difficoltà per l’arte pittorica ferrarese. La morte di Scarsellino (1620) e di Bononi (1632) priva la scena artistica locale dei pennelli migliori lasciando un vuoto e creando una una crisi d’identità, che allontana la cultura figurativa locale dai fasti del passato. Sulla scena emergono però figure prolifiche e capaci di gettare il proprio sguardo oltre le mura della città: è il caso del grande decoratore Francesco Ferrari e di Giacomo Parolini, autore vigoroso e sensuale attivo anche a Torino, Venezia e Bologna.
Di grande importanza, infine, Francesco Pellegrini, pittore lirico e delicato, capace di coniugare la materia pittorica settecentesca con la tradizione devozionale di marca controriformistica.
Sala 20
Il Museo di Gian Maria Riminaldi
A Ferrara nasce nel 1758 uno dei primi musei pubblici d’Italia. La sua sede naturale è Palazzo Paradiso, ove già era stato collocato il Lapidario Civico. Immediatamente il museo viene potenziato e modificato grazie all’azione del nobile ferrarese Gian Maria Riminaldi, nel quadro della riforma del sistema universitario del 1771.
Riminaldi viveva a Roma, dove aveva intrapreso una brillante carriera ecclesiastica, culminata con la nomina a cardinale nel 1785. Interessato all’arte, all’architettura, alle lettere e attento alle nuove esperienze della cultura europea, intrecciò una rete di rapporti con i maggiori intellettuali e collezionisti del tempo e con artisti di fama. Le grandi realtà dei Musei Capitolini, del Museo Vaticano, le collezioni dei Medici e dei Farnese e le famose raccolte Albani furono il riferimento per la realizzazione del suo museo.
A partire dal 1763 e fino alla morte nel 1789, inviò in dono a Ferrara un flusso ininterrotto di opere: sculture, mosaici e arredi di eccellente qualità, fatti confezionare o acquistati sul mercato antiquario. Si possono ammirare qui e nella sala successiva. Domina l’incredibile Litoteca, posta al centro della sala, un campionario di ogni tipo di marmi rari e pietre dure, classificati in latino, che ben evoca il clima antiquario e scientifico che animava l’erudizione settecentesca.
Sala 21
Un museo per l’Università
Il museo di Riminaldi procede di pari passo con il rinnovamento dell’Università locale. Arte e conoscenza dovevano concorrere alla formazione della nuova classe dirigente cittadina.
La passione per l’arte classica, nel solco dell’insegnamento di Johann Joachim Winckelmann, guida gli acquisti del cardinale. Ai marmi della sala precedente si integrano i bronzi, tra cui svetta il bell’Apollo di scuola veneta e l’Angelo di Alessandro Algardi, ma anche una nutrita selezione di bronzetti, riferibili alle principali botteghe del Cinque e Seicento: qui vengono riprodotte in dimensione ridotta i capolavori della statuaria classica e moderna. Tra le rare sculture di ambito religioso si distingue il prezioso San Giorgio di Francesco Fanelli, inviato in dono per lo speciale legame del santo con la città, che lo venera come patrono.
Qui vicino trovate anche il grande mosaico, imitazione di quello rinvenuto nella villa adrianea di Tivoli nel 1737, esposto nel modo in cui il cardinale lo volle rendere fruibile a Palazzo Paradiso, in dialogo con un prezioso tavolo con il piano rivestito di ametista e diaspro sanguigno, affiancato da due proporzionate sculture.
Nel 1898 la raccolta Riminaldi verrà trasferita insieme alle collezioni numismatiche e antiquarie dell’Università nel neonato Museo di Palazzo Schifanoia, è per questo che abbiamo scelto di chiudere il nostro percorso con il Museo Riminaldi, proponendovi una sorta di ritorno alle origini della funzione civica del luogo rappresentato dal nuovo Museo Schifanoia.
Sala 21
Leopoldo Cicognara e Antonio Canova
L’ultima opera è un capolavoro straordinario di Antonio Canova: il busto ritratto del conte ferrarese Leopoldo Cicognara, intellettuale di statura internazionale, autorevole voce nel campo della storia e della critica d’arte tra Sette e Ottocento, nonché grande amico di Canova.
Il sodalizio tra i due, basato su una visione condivisa dell’arte e della sua funzione in campo morale e sociale, è testimoniato da un fittissimo e prolungato carteggio. Nel 1821 Canova inizia a lavorare al colossale busto di Cicognara, da donare all’amico in segno di affetto e di stima; non gli sarà concesso il tempo per completare il ritratto che sarà rifinito nella chioma dall’allievo Rinaldo Rinaldi dopo la scomparsa del grande scultore nel 1822.
Nonostante ciò, l’opera trasmette con forza tutta la capacità del Canova di rendere ideale e al contempo reale ciò che andava creando.
Pubblicato su “MuseoinVita” | 11-12 | 2020/21
Note
[1] Si preferisce questa dizione a quella convenzionale di “trecentesca” perché la sua fondazione si colloca negli ultimissimi anni del XIV secolo e gli affreschi sono prevalentemente coevi o scalabili ai primi decenni del Quattrocento. In sede di presentazione abbiamo scelto la dizione “albertiana” optando per l’aggettivo in base al sostantivo “ala” e per assonanza con la più famosa “ala borsiana”. Ciò ha turbato qualche purista della lingua italiana, guarda caso la stessa che da anni utilizza un quotidiano locale per regolare frustrazioni personali con il resto del mondo: “albertiano”, ci è stato rimproverato, è sostantivo di esclusiva pertinenza di Leon Battista Alberti! Seguendo questa logica, però, non si comprende come mai la stessa fonte abbia utilizzato costantemente in un suo pregevole libro l’aggettivo “borsiana” o “borsiano” e non, come vorrebbe la logica del suo rimprovero, “borsino” o “borsina”…