La chiesa di Sant’Alessandro in Grassobbio conserva, all’interno della propria quadreria seicentesca di gusto squisitamente lombardo, una preziosa eccezione: un’opera tardo-cinquecentesca di scuola ferrarese (fig. 1) rappresentante l’Adorazione dei pastori[1]. In calce al dipinto, oggi collocato sul lato sinistro del presbiterio, compare un’iscrizione piuttosto fuorviante[2], che ha portato la critica novecentesca a considerare la tela un autografo di Domenico Monio o Mona (Ferrara, 1550 ca. – 1602); in realtà, sebbene la presenza di questo nome non sia del tutto ingiustificata, non è al maestro ferrarese che se ne deve attribuire la paternità[3].

Fig. 1, Gaspare Venturini (qui attribuito, Adorazione dei pastori, data*, Grassobbio (BG), Sant'Alessandro

Fig. 1, Gaspare Venturini (qui attribuito), Adorazione dei pastori, 1592, Grassobbio (BG), Sant’Alessandro

Se puntualmente si analizzano le opere a cui egli attese in Ferrara agli inizi dell’ultimo decennio del Cinquecento, ci si accorgerà del profondissimo divario stilistico che le separa da quella in esame. Proprio il 25 gennaio 1592 veniva scoperta la cappella maggiore della chiesa di San Paolo, per il cui altare il Monio aveva eseguito, su commissione degli eredi di Giuseppe Palmiroli, il grandioso gruppo con le tre Storie del santo di Tarso[4]. Qui, come nelle altre tele per la cappella Mazzoni, si riconosce il grado massimo di contaminazione del manierismo romano, ravvisabile soprattutto nell’energico gesticolare e nelle muscolose anatomie che, seppur imperfette, tradiscono una dipendenza dal modello michelangiolesco[5]: non sembra forse il cupo littore (fig. 2), accovacciato sotto il podio di Nerone nella scena del martirio, uscito dalle schiere dei cherubini e dei serafini che affollano la nube del Creatore sistino? O dalla turba degli angeli che suonano le lunghe trombe del Giudizio? S’infittiscono, inoltre, quei panneggi cartacei che già Girolamo Baruffaldi (Ferrara, 1675 – Cento, 1755) aveva annoverato tra le cifre del pittore, modellati in secche pieghe dall’andamento fratto e spigoloso; attraversano tessuti dai colori pungenti e dissonanti, ma che la luce unifica in una sola consistenza materica[6]. Si caricano, infine, le fisionomie dei volti, sino a comporre un ricco campionario di stati d’animo diversi.

Nulla di tutto ciò si ritrova nella nostra opera.

Fig. 2, Domenico Monio, Decollazione di San Paolo, 1592, Ferrara, San Paolo, part.

Fig. 2, Domenico Monio, Decollazione di San Paolo, 1592, Ferrara, San Paolo, part.

L’autore sceglie un’ambientazione notturna, rischiarata dal bagliore che irradia dal Salvatore, fulcro della composizione; attorno a lui è un dispiegarsi di pose elegantissime e raffinate, e l’aggraziata fisicità dei pastori è tornita dai freddi riflessi di luce che fanno affiorare le cromie brillanti degli abiti. Si riconoscono senza difficoltà le consistenze quasi metalliche dei tessuti, mossi da un rapido serpeggiare di tocchi luminosi e avviluppati in panneggi appena più naturali di quelli del Monio. La luce definisce gradatamente anche i volti: quello eburneo di Maria, in cui un delicatissimo chiaroscuro segna i tratti rotondi e gentili; quelli incandescenti dei due pastori a destra, investiti dallo sfolgorio divino; quelli di san Giuseppe e del villano alle sue spalle, che un soffio di scintilla ancora riscalda. Sullo sfondo, nel buio profondo della capanna, le ombre hanno la meglio sul chiarore e a malapena si distingue, accanto alla massiccia testa dell’asino, il volto di donna con occhi levati. Ella, presenza angelica e umana al tempo stesso, è intermediaria tra la terra e il cielo e guarda a una giostra di putti irrequieti che volano attorno al cartiglio; la corrispondenza cromatica dei drappi dei cherubini integra il festoso gruppo con la scena terrena, mentre sopra il tetto ligneo, prospetticamente ben reso, un fazzoletto di cielo preannuncia l’aurora.

Fig. 4, Domenico Monio, Natività di Gesù, 1581, Ferrara, Santa Maria in Vado, part.

Fig. 3, Domenico Monio, Natività di Gesù, 1581, Ferrara, Santa Maria in Vado, part.

Constatati dunque i toni equilibrati e semplici del dipinto, che stridono con le scelte bizzarre e macchinose del Monio maturo, sarebbe sicuramente più facile accostare questo lavoro alla produzione giovanile del pittore, negli anni in cui ancora era legato ai modi stilistici di Giuseppe Mazzuoli detto il Bastarolo (Ferrara, 1536 ca. – 1589)[7]; anche da un punto di vista compositivo merita di essere confrontato con la Natività di Gesù per la chiesa di Santa Maria in Vado (fig. 3), che il maestro aveva terminato nel 1581. Pare di riconoscere qualche somiglianza con la scena centrale, a partire dal suggestivo effetto di notturno che aveva reso celebre il quadro ferrarese, «da’ professori attentamente osservato per avere in esso il pittore dato saggio del suo intendere il chiaroscuro»[8]; l’ambientazione tradisce, oltre all’osservazione di modelli tintoretteschi e bassaneschi[9], la memoria del delizioso precedente di Antonio Allegri detto il Correggio per San Prospero a Reggio[10].

Ma affinità si ritrovano anche nelle pose di certi personaggi: il pastore inginocchiato in primo piano condivide col nostro la stessa postura delle gambe; le due figure colloquianti di destra derivano dal prototipo del Monio e una di loro, a profil perdu, prende in prestito dal vicino capraio il torso asciutto e muscoloso; Maria è chinata sul Bambino con uno scatto meno apprensivo rispetto al modello, mentre Giuseppe le sta accanto in una composta contemplazione; gli angeli che giocano in cielo sono senza dubbio più fanciulleschi di quelli già adolescenti di Ferrara (fig. 4), e l’asino ricopre con il bue la stessa posizione insolitamente dominante. Inoltre, si riscontrano alcune similitudini nelle scelte cromatiche, che testimoniano un’osservazione non così fugace dell’originale: nel velluto purpureo dell’interlocutore incappucciato, nell’abito rosato della Madonna, nelle vesti ocra e indaco del suo sposo.

Fig. 4, particolare di fig. 1

Fig. 4, particolare di fig. 1

Questi indizi portano a credere che l’esemplare di Grassobbio sia una derivazione della grande tela ferrarese, un originale esercizio di copiatura attribuibile a quell’entourage di collaboratori che il Monio aveva organizzato attorno a sé, grazie al quale in molte occasioni gli fu possibile attendere a diversi cantieri contemporaneamente e con un’insolita rapidità; un gruppo di allievi «impegnati […] ad ammodernare, addolcire e soprattutto adeguare ai canoni estetici post-tridentini le forzature del maestro e, più in generale, degli ultimi rappresentanti locali della Maniera»[11]. Tentare di ricostruire le personalità di ciascuno di loro è alquanto difficile: ci si muove in un ambito, quello della pittura a Ferrara agli inizi del XVII secolo, tutt’altro che sedimentato e ancora caratterizzato da profonde incertezze, nonostante gli ottimi sforzi compiuti in direzione di un dipanamento[12].

Fig. 5, Gaspare Venturini, Allegoria del Buon Governo, 1592-93, Modena, Banca popolare dell'Emilia Romagna

Fig. 5, Gaspare Venturini, Allegoria del Buon Governo, 1592-93, Modena, Banca popolare dell’Emilia Romagna

I percorsi artistici e le vicende biografiche ancora da calibrare non consentono, in molti casi, di raggruppare attorno a un pittore un ben preciso corpus di opere e le attribuzioni traballano, non supportate da dati significativi. A questo si aggiunga la larga diffusione, sul finire del Cinquecento, di un comune linguaggio pittorico, derivato dalla stretta collaborazione tra le varie botteghe, che non permette un facile discernimento dei meriti dei singoli: bene lo dimostra la vicenda attributiva delle tele per i soffitti di Palazzo dei Diamanti, commissionate da Cesare d’Este a partire dal 1586[13]. A questa impresa partecipò, tra gli altri, anche Gaspare Venturini (Ferrara, notizie 1576 – 1593), la cui attività di decoratore a palazzo è ampiamente documentata sino all’anno della prematura morte, avvenuta nel 1593[14]: qualche mese prima aveva realizzato alcuni dipinti per i cassettoni del camerino destinato ad accogliere la biblioteca del duca[15]. Uno di questi (fig. 5), rappresentante l’Allegoria del Buon Governo[16], si offre per un calzante confronto con l’Adorazione di Grassobbio e fa credere che proprio il Venturini possa essere l’artista a cui spetta la paternità dell’opera in esame: per quanto riguarda la vicinanza non solo dei panneggi metallici delle vesti di Maria e di Cerere, che la luce rende lucide e della stessa consistenza del raso brillante, ma anche delle scelte cromatiche degli aranciati di certi drappi e dei cerulei del cielo.

Fig. 6, confronto tra le opere di figg. 1 e 5

Fig. 6, confronto tra le opere di figg. 1 e 5

Se questo non bastasse, si noti l’identico particolare del putto teso in volo (fig. 6), che nell’ovale ferrarese al gioco con il cartiglio preferisce un più energico lancio della palla: il riuscitissimo “sottinsù” con cui è raffigurato tradisce la mano di un abile conoscitore degli scorci prospettici quale il Venturini doveva essere, per poter prendere parte, in un ruolo non proprio marginale, all’ultima impresa decorativa patrocinata dagli Estensi.

Il più alto grado di questa deformazione lo raggiunse con l’ottagono raffigurante Vulcano sulle nubi (fig. 7), per il quale venne pagato nel luglio del suo ultimo anno[17] e che è prossimo, nella resa evoluta degli scorci, ad alcune soluzioni dell’Adorazione, come il piede destro del personaggio in primo piano, la mano sinistra del pastore a torso nudo o il corpicino del Bambino.

Fig. 8, Gaspare Venturini (attr.), Vulcano sulle nubi, 1592-93, Modena, Galleria Estense

Fig. 7, Gaspare Venturini (attr.), Vulcano sulle nubi, 1592-93, Modena, Galleria Estense

Anche il recente inserimento, nel catalogo dell’artista, della coeva Santa Cecilia della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia convince della bontà della nostra attribuzione: lampante appare la vicinanza tra il gesto della mano della santa intenta a suonare l’organo e quella del pastore orante al centro del Presepio, con il dettaglio del medio e dell’anulare uniti in una posa vezzosa e delicatissima[18].

Altre porzioni della tela grassobbiese, tuttavia, non sembrano altrettanto pacificamente ascrivibili al Venturini, come è possibile constatare analizzando alcune fisionomie dei volti, che tradiscono l’intervento di una mano diversa[19]. Nonostante questo, i confronti sin qui istituiti consentono di affermare con certezza che l’ideazione della composizione e la scelta delle soluzioni più originali spettarono al maestro ferrarese; non si esclude che il completamento dell’opera venga affidato, dopo la dipartita di Gaspare, a un suo collaboratore, meno fantasioso ma allo stesso tempo rispettoso della «maniera diligente e dilicata»[20] del primo.

Se si volesse, infine, tentare un’identificazione dell’opera tra le diverse che la storiografia associa al nome del pittore, non si dovrebbe trascurare l’informazione trasmessa da Cesare Cittadella, il quale ricorda «[…] in casa Raspi una Tela con la visita de’ Magi molto ben mantenuta»[21]: nonostante manchino alcuni fondamentali attributi propri dei tre re, è incontestabile l’insolita eleganza dei pastori, addobbati con svolazzanti cappelli alla moda e con mantelli principeschi – dettagli che avrebbero potuto trarre in inganno l’osservatore circa la loro reale identità.

Note

Desidero porgere i miei più sentiti ringraziamenti a Daniele Benati e a Barbara Ghelfi per i preziosi suggerimenti e il paziente aiuto fornito durante la stesura del presente articolo.

[1] Il dipinto (255 x 145 cm) fu donato dal dottor Antonio Piccinelli (Bergamo, 1816 – 1891) alla parrocchiale di Grassobbio nel 1859; egli lo aveva acquistato da Luigi Piazzoni, figlio del nobile Giuseppe (G. Siffredi, La raccolta Piccinelli a Seriate, “Bergomum”, LXVI, gennaio–marzo 1972, p. 88). Sulla figura di Piccinelli e sulla sua collezione si veda il recente studio di A. Pacia, La collezione di Antonio Piccinelli. Documenti inediti sulla sua dispersione, “Bergomum”, CVI, 2011–2012, p. 67.

[2] L’iscrizione (1592 / DOM[ENI]CO MONIO), nell’angolo in basso a sinistra, è chiaramente apocrifa; probabilmente fu apposta sul finire del XVIII secolo, come suggerirebbe la lezione “Monio” per il cognome dell’artista, utilizzata per la prima volta da Giuseppe Antenore Scalabrini (Ferrara, 1694 – 1777) nel 1773 (G.A. Scalabrini, Memorie istoriche delle chiese di Ferrara e de’ suoi borghi, Ferrara 1773). L’attribuzione a Domenico Monio non è accettata in questa sede, ma è giustificata in base al carattere evidentemente ferrarese del dipinto; la datazione, invece, pare coerente.

[3] Agli inizi del Novecento Elia Fornoni (Bergamo, 1847 – 1925), nei suoi manoscritti riguardanti i pittori forestieri operanti nel territorio bergamasco, oltre a riportare alcune notizie biografiche sul Monio, annotava che di lui si conserva «la Natività di Maria nel coro di Grassobbio, donata dalla famiglia Piccinelli. Proviene da Ancona»; l’erudito confonde però il dipinto in esame con la tela che oggi gli sta dirimpetto, a destra del coro, raffigurante appunto la Nascita della Vergine (E. Fornoni, Pittori forestieri, vol. IV, ms. presso Archivio della Curia vescovile di Bergamo, p. 20). Nel 1931 Angelo Pinetti (Bergamo, 1872–Milano, 1930), nel suo inventario ministeriale per la provincia bergamasca, parlava de «la Nascita di Gesù Cristo» e specificava che «all’estremo spigolo inferiore a sinistra del quadro leggesi la firma: 1592. Dom. Monio» (A. Pinetti, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, vol. I, Roma 1931, p. 303). Nonostante questo preciso indizio, nel volume sul manierismo ferrarese del 1978, Giuliano Frabetti confuse nuovamente il dipinto e lo scambiò con l’Adorazione dei Magi oggi nell’oratorio di Santa Maria Assunta (G. Frabetti, L’autunno dei manieristi a Ferrara, Ferrara 1978, pp. 83-84).

[4] Frabetti, op. cit., pp. 78-80.

[5] Il Frabetti suppone un viaggio del pittore a Roma intorno a queste date, forse favorito dall’aggregazione dell’Arciconfraternita del Preziosissimo Sangue in Santa Maria in Vado a quella romana del Gonfalone (Frabetti, op. cit., p. 61). A proposito dell’irradiamento della cultura manierista in area padana, la recente mostra Lampi sublimi a Ferrara. Tra Michelangelo e Tiziano: Bastianino e il cantiere di San Paolo curata da Anna Stanzani alla Pinacoteca Nazionale (Ferrara, 13 dicembre 2014–31 maggio 2015) porta a riflettere sul ruolo ricoperto da Giorgio Ghisi (Mantova, 1520 – 1582) nella trasmissione, mediante il veicolo dell’incisione, degli affreschi del Buonarroti.

[6] «[…] il fondamento delle sue pieghe era sempre falso, usando egli di modellare col cartone su d’un bamboccio, cosa che sempre gl’insegnava durezza, perché il cartone non è mai di quella flessibilità ed arrendevolezza di cui sono i drappi de’ quali con tanto profitto fanno uso i buoni pittori» (G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, vol. II, Ferrara 1846, p. 11).

[7] Si veda, ad esempio, il confronto che fa il Frabetti tra la Pietà già nella sagrestia della Cattedrale di Ferrara (1576) e il “prototipo” del Bastarolo di analogo soggetto, conservato nella locale raccolta Nonato (Frabetti, L’autunno dei manieristi cit., p. 69).

[8] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., pp. 14-15.

[9] Frabetti, L’autunno dei manieristi cit., pp. 74-75.

[10] Il dipinto, eseguito tra il 1525 e il 1530, è oggi conservato alla Gemäldegalerie di Dresda (G. Adani, Correggio pittore universale, Correggio 2007, p. 126). Si ricordi che nel 1587 il Monio richiederà, invano, l’autorizzazione a copiare la Madonna di San Giorgio, allora conservata nell’oratorio della Confraternita di San Pietro Martire a Modena (L. Pungileoni, Memorie istoriche di Antonio Allegri detto il Correggio, vol. I, Parma 1818, p. 235).

[11] A.E. Denunzio, Una proposta per Giulio Cromer nel Palazzo Reale di Napoli, “Studi di Storia dell’Arte”, XII, 2001, p. 224.

[12] E. Riccomini, Il Seicento ferrarese, Milano 1968. Per una più recente analisi del panorama artistico ferrarese agli inizi del Seicento si veda B. Ghelfi, Pittura a Ferrara nel primo Seicento: arte, committenza e spiritualità, Ferrara 2011.

[13] Daniele Benati parla di una vera e propria koinè culturale diffusasi a Ferrara nella prima metà del Seicento [D. Benati, L’incoronazione della Vergine con i santi Martino di Tours e Beatrice, in F. Rossi (a cura di), Dalla banca al museo. La collezione d’arte del Credito Bergamasco, Milano 1996, p. 49].

[14] Per una ricostruzione della biografia e del catalogo dell’artista si veda Ghelfi, Pittura a Ferrara cit., p. 237. Il Baruffaldi, riferendosi ad alcune effettive somiglianze tra Domenico Monio e Gaspare Venturini nel trattamento dei panneggi, scriveva della possibilità che il secondo, «prima d’andarsi a sottoporre agli insegnamenti di Bernardo Castelli, frequentasse la scuola del Mona e n’apprendesse i primi principii, com’è facilissimo per la concorrenza degli anni non meno che della patria» (Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., p. 47).

[15] S. Cavicchioli, I Carracci per Cesare d’Este: due lettere inedite e una precisazione su Gaspare Venturini, “Paragone”, DXIII, 1992, p. 74 nota 17.

[16] D. Benati, Allegoria del Buon Governo, in D. Benati, L. Peruzzi (a cura di), I dipinti antichi della Banca Popolare dell’Emilia, Modena 1987, pp. 49-50.

[17] Cavicchioli, I Carracci per Cesare d’Este cit., p. 71.

[18] D. Benati, Santa Cecilia, in M.B. Castellotti, E. Lucchesi Ragni (a cura di), Pinacoteca Tosio Martinengo. Catalogo delle opere. Secoli XII-XVI, Venezia 2014, pp. 427-429.

[19] I volti dei due pastori a sinistra, stereotipati e caricaturali, sono molto distanti dall’aspetto nobile e pacato dell’uomo incappucciato sulla destra; sembrano quasi derivare da quei «visi caricati come mascheroni» di cui parlava il Frabetti per Domenico Monio (Frabetti, L’autunno dei manieristi cit., p. 18). Anche gli angeli hanno volti alquanto diversi tra loro: tra i compagni paffuti si distingue l’efebo arrossato con il manto color ardesia, che presenta un ovale più snello e allungato.

[20] Baruffaldi, Vite de’ pittori cit., p. 46.

[21] C. Cittadella, Catalogo istorico de’ pittori e scultori ferraresi e delle opere loro, vol. III, Ferrara 1782–1783, p. 42. Si tratta certamente di una curiosa coincidenza, ma la famiglia Raspi, originaria di Mantova e poi trasferitasi a Venezia e a Ferrara, sin dal Duecento aveva un ramo trapiantato anche a Bergamo (V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. VIII, parte II, Milano 1935, p. 517).

Pubblicato su “MuseoinVita” | 2 | dicembre 2015