L’archivio fotografico o fototeca, che dir si voglia, ha rappresentato un territorio pressoché sacro per intere generazioni di storici dell’arte. Una sorta di tempio nel quale ritirarsi e al quale ci si rivolgeva per trovare conferme o sconfessioni alle proprie teorie, confrontarsi con le opere oggetto di ricerca o per cercarne di nuove.
Il progredire della tecnologia, dei metodi di archiviazione e la comparsa delle consultazioni online delle collezioni museali o di progetti ad altissima definizione come Google Art Project hanno reso quei luoghi semideserti, specie quelli che, per svariati motivi, faticano a mettersi al passo con i tempi. La crisi non riguarda, ovviamente, le grandi fototeche “di genere”, come quelle del Kunsthistorisches Institut di Firenze e quella della Fondazione Zeri a Bologna, ma interessa soprattutto le più piccole, legate a musei con budget limitato o vincolate da politiche culturali non sempre illuminate.
È per provare a testimoniare l’importanza di questi spazi della memoria fotografica che vorrei proporre al lettore di “MuseoinVita” qualche riflessione intorno ad una foto ritrovata o, meglio sarebbe dire, che attendeva solo di essere letta e compresa, custodita presso la Fototeca dei Musei di Arte Antica. Un’immagine che ci conduce alla conoscenza di un’opera non nota e che, proprio attraverso questa pubblicazione, si auspica di poter recuperare fisicamente per poterla studiare dal vero e verificare quindi ciò che la sua riproduzione ci comunica.
La Fototeca Civica, come si chiamava in origine, non sfugge alla crisi evocata poco sopra. Essa rappresenta ancora oggi una realtà ben conosciuta tra gli studiosi di “cose” ferraresi, un tempo area di ricerca assai frequentata e animata, oggi archivio in seria difficoltà. I tagli al personale condotti nell’ultimo decennio, che hanno portato alla soppressione del Gabinetto fotografico che ne costituiva parte integrate e attiva, unita ad oggettive problematiche gestionali, hanno portato ad una crisi di identità particolarmente marcata[1].
Fondata nel 1970 da Ranieri Varese sul “corpo” della donazione di Gualtiero Medri, si è via via arricchita incorporando gli esiti documentari dell’opera di ricerca e tutela dei Musei di cui fa parte o per mezzo di aggregazioni e donazioni[2].
Impostata per lo più su criteri di carattere territoriale e topografico, la Fototeca custodisce anche una serie di cartelle monografiche dedicate ad artisti attivi a Ferrara, ma non solo, alimentate soprattutto negli anni Ottanta dall’attività della rivista “Musei ferraresi”, organo ufficiale di via Scandiana.
Esemplare in tal senso la cartella dedicata a Carlo Bononi. Il pittore non è qui rappresentato dalle opere più famose, ma da un percorso per immagini non lineare, composto da stampe utili ad illustrare gli articoli che Alberto Rizzi e la compianta Maria Angela Novelli gli dedicarono oppure da opere riprodotte in pubblicazioni che videro coinvolti i musei civici di allora[3].
Un nuovo Genio delle arti di Carlo Bononi
Non tutte però si attengono a questa casistica. Tra gli scatti custoditi emerge la fotografia in bianco e nero, stampata in più copie e con diversa intensità di grigi, di un dipinto semplicemente incredibile (fig. 1). La fotografia reca sul retro informazioni precise riguardo l’autore dell’opera, Carlo Bononi, il soggetto, un Genio delle arti, e la data della stampa, il 1983[4]. Più vaghe quelle relative all’ubicazione – una collezione privata di una città che qui si omette per comprensibili motivi – e del tutto assenti quelle relative alle dimensioni.

Fig. 1, Carlo Bononi, Genio delle arti, 1617-18 circa, ubicazione ignota
Questo “ritrovamento” lascia semplicemente interdetti per diversi motivi: innanzitutto per l’alta qualità dell’opera, che si colloca tra ai vertici della produzione bononiana, insidiando da vicino (per forse superarlo, come si vedrà) il primato del Giacobbe che riceve la veste insanguinata di Giuseppe di collezione privata[5]; secondariamente, perché nessuno degli specialisti del pittore e dell’arte emiliana del Seicento risulta essere a conoscenza dell’esistenza di questa tela[6].
Il soggetto del quadro è il medesimo di un altro celebre dipinto di Bononi che Hermann Voss, nel presentarlo per la prima volta nel 1962, identificò come un “Genio delle arti”[7]. Rispetto a quel notissimo e molto apprezzato dipinto, ora in collezione Lauro a Bologna e che si può ammirare qui, la composizione presenta analogie e differenze che vanno al di là del comune soggetto iconografico: comune è infatti la posa del torso dell’angelo, con il braccio sinistro proteso verso la parte opposta del corpo, la voluminosa corona di lauro sulla testa e la tendenza della figura a sollevarsi dalla posizione seduta. Differenti, invece, sono l’andamento della parte bassa del corpo, la posa delle gambe e il gesto associato all’ostentazione di una delle arti raffigurate: se nel quadro Lauro il protagonista sta tenendo aperto con la mano destra un libro e con la sinistra sembra in procinto di collocare un’altra corona di alloro sugli strumenti disposti per terra, nel nuovo dipinto il protagonista usa il braccio destro per appoggiarsi tenendo in mano la corona e la sinistra per sorreggere una tavolozza, nella composizione scoperta da Voss poggiata invece in terra.
Lievi differenze anche per i simboli delle varie arti: nella “nuova” composizione si scorgono, da sinistra, uno spartito coperto da un liuto rovesciato, un trombone, dei libri, un busto arditamente scorciato e, alle spalle dell’angelo, un violino, abbandonato come se il giovane angelo avesse interrotto una sessione di prove per mettersi in posa per il pittore. E, se leggo bene la fotografia, soprattutto viene a mancare l’armatura che nell’altra tela sottolineava il valore positivo delle Arti rispetto alla guerra[8].

Fig. 2, Caravaggio, Amore terreno o Amor vincit omnia, 1602 circa, Berlin, Staatliche Museeen, Gemäldegalerie (foto Wikipedia)
In definitiva, se la tela Lauro sottolinea con didascalica chiarezza la funzione di “genio delle arti” dell’angelo, chiamato ad incoronare i simboli delle attività che sorveglia, nel quadro qui presentato l’accento è posto sull’esibizione del corpo flessuoso e smaccatamente nudo dell’angelo. Un simile filtro iconografico accompagna magnificamente la lettura stilistica dell’opera al confronto con l’altra finora più nota redazione: se quest’ultima è sempre stata letta come un ricordo genuino e fresco, ma pur sempre un ricordo, del contatto avuto con Roma e con i seguaci di Caravaggio, il nuovo Genio restituisce la suggestione immediata e viva del prototipo di questo genere di composizioni, ovvero l’Amore terreno (o Amore vincitore o, ancora, Amor vincit omnia) del Merisi della Gemäldegalerie di Berlino (fig. 2), opera clamorosamente nota sin da subito, destinata ad imprimersi a fuoco nella memoria di pittori, poeti e viaggiatori[9].
Accostando l’opera di Bononi a quell’altissimo capolavoro vi si legge con chiarezza cristallina tutto l’impatto emotivo suscitato dallo smaccato realismo di quel dipinto straordinario, un’impressione che genera in Carlo, sempre scisso tra un’operatività profondamente tardo manierista e un cuore già pienamente ed emozionalmente seicentesco, l’impulso a iniettare nella sua creatura linfa naturalistica e a vestirla di un chiaroscuro che esalta, più che avvolgerle, le forme e l’anatomia. Anche se l’adolescente bononiano appare memore dei movimentati angeli del catino absidale di Santa Maria in Vado, infatti, si ha la netta impressione che questo scossone sia stato registrato nella tela in oggetto in presa diretta, non ancora assorbito e reindirizzato – come avverrà a breve nell’altra redazione del Genio, nella Pietà del Louvre e nella pala d’altare di Fano – alla radice emiliana, ad un tempo correggesca e dossesca, così tipica di Bononi attorno al 1620.
Stiamo osservando quindi un quadro realizzato con tutta probabilità a Roma, a brevissima distanza dal contatto visivo con l’Amore terreno: come se il pittore vi avesse lavorato appena rientrato da casa Giustiniani dopo aver ingrossato la fila di artisti (Baglione, Riminaldi, Borgianni, Manetti e altri) che vi si recavano per ammirarlo.
Altro elemento caratteristico è che qui il protagonista appare integralmente nudo, non nascosto da veli leggiadri e svolazzanti come nel fratello della collezione Lauro, anche se a Bononi (o al suo committente) manca il coraggio di seguire il modello caravaggesco sulla via dell’ostentazione genitale. A Caravaggio e ai caravaggeschi fanno riferimento anche il formato (quasi quadrato, alla Manfredi) e la rigogliosa corona di lauro che, in entrambe le redazioni, si colloca a metà tra quella del Bacchino malato della Borghese e quella dell’angelo a sinistra nell’Estasi di San Francesco dell’Art Institute di Chicago, dipinta nel 1601 da Giovanni Baglione (quadro che molto condivide, peraltro con il Genio bolognese).

Fig. 3, Anonimo (da C. Bononi), Genio delle arti, XVII sec., Amsterdam, Rijskmuseum, inv. RP-P-H-H-900 (foto Museo)
Abbiamo sempre immaginato il tema del Genio delle arti come un soggetto molto raro nel catalogo di Bononi; esso emerge invece in modo più numeroso di quanto ritenuto finora. Numeroso ed anche imprevedibile: esistono infatti almeno due testimonianze, ancora da indagare appieno, del successo delle formule bononiane in queste materie.
Una è la poco felice copia del “nuovo” Genio qui presentato passata di recente sul mercato antiquario con attribuzione alla cerchia di Giovanni Baglione (la si veda qui). La seconda, ben più rilevante ed importante, è un’incisione conservata al Rijskmuseum di Amsterdam (fig. 3) che presenta la medesima composizione in controparte del dipinto Lauro, precisa quasi al millimetro[10]. La circostanza che la stampa sia stata in passato attribuita dubitativamente a Michel Dorigny su invenzione di Simon Vouet nonché la presenza di qualche arricchimento figurativo (i pennelli nella tavolozza e i libri posti in modo diverso) non deve mettere in crisi il dato più evidente: il dipinto appare speculare all’incisione e ciò impone, per ora, di ritenere che sia la seconda a derivare dal primo, non viceversa. Ciò aggiunge ulteriore mistero intorno all’estro bononiano e ai suoi percorsi figurativi, nonché intorno ai committenti che andavano comprando suoi quadri del genere.
Tornando alla nostra fotografia, come si è detto essa ci trasmette le sembianze di un’opera dal sentimento pienamente romano e che viene a porsi come la più preziosa testimonianza dell’avvenuto contatto con la cultura figurativa della città eterna di inizio secolo. Letta così, si tratta di una testimonianza preziosa anche perché l’altra “prova” solitamente identificata per tale finalità non è affatto di Bononi: mi riferisco allo sfortunato frammento (fig. 4), parte della pala un tempo in Santo Spirito a Ferrara e copia della Deposizione dipinta da Caravaggio per Santa Maria in Vallicella, sopravvissuto al bombardamento che interessò Palazzo dei Diamanti.

Fig. 4, Artista romano (da Caravaggio), Deposizione di Cristo (frammento)
tela, Ferrara, Pinacoteca Nazionale, inv. 232 (part., Fotofast_2353)
Lo stile già di per sé porta ad allontanare lo sventurato lacerto da Bononi (e a ricollocare il suo autore a Roma), inoltre occorre finalmente chiarire che la fonte testimoniale a favore del Nostro non è l’informatissimo Carlo Brisighella – pronipote del pittore e detentore dell’autografo e fantomatico libro di annotazioni – e che, al contrario di quanto si è letto spesso, Baruffaldi il quadro non lo menziona neppure[11].
Per l’agenda di Bononi subito dopo il 1617
Il processo di bonifica dalle scorie che intorbidiscono la lettura delle fonti relative all’artista ferrarese ci porta direttamente alla nebulosa costituita dal misterioso soggiorno capitolino, una fase della sua carriera che ancora si fatica ad afferrare. Le righe che seguono vogliono avviare una riflessione unicamente basata sulle date, non sui modelli figurativi (i quali, agli occhi di chi scrive, appaiono ben più ampi di quelli solitamente chiamati in causa).
Si afferma spesso che il primato della notizia del viaggio e della sua durata («due anni e qualche giorno») spetti a Baruffaldi e alla problematica biografia dedicata al pittore dal letterato ferrarese[12]. In realtà, già nel 1620, vivente Bononi, la notizia è diffusa da Agostino Superbi secondo il quale «Carlo Bonone […] dopò molt’anni di Studio fatti in Roma, ritornato alla Patria da saggio tuttavia della virtù sua e valore»[13]. Quanti anni siano i “molti” di Superbi non è facile da dire e neppure da collocare cronologicamente.
La “questione romana” fu impostata criticamente da Andrea Emiliani nel 1962 indicando nelle tele dipinte per San Paterniano a Fano la prova dell’avvenuto viaggio capitolino, esperienza che lo studioso collocava verso fine del primo decennio del Seicento, scalando le opere marchigiane, conseguentemente, attorno al 1611-12[14]. Sulla scia di questa illuminante intuizione, l’esecuzione di questi ultimi è stata ritardata alla seconda metà del secondo decennio da Luigi Spezzaferro in base al legame con quanto si andava realizzando sulla scena romana negli anni immediatamente precedenti, in particolare con le due tele di Carlo Saraceni in Santa Maria dell’Anima eseguite, si riteneva al tempo, sul 1615-17. Ciò ha portato a situare la presenza capitolina di Bononi intorno al 1617-18 e, come già ipotizzato da Emiliani, ad accorciarne i tempi rispetto a quanto riportato da Baruffaldi[15].
Questa interpretazione può essere precisata meglio alla luce di alcune considerazioni. Nel tentativo di far spazio nell’agenda del pittore per consentirgli il viaggio verso sud con più agio bisogna abbandonare definitivamente i cauti estremi cronologici della prima parte della decorazione di Santa Maria in Vado (teleri della navata, della tribuna e catino absidale), impostati sulla presunzione che essi, in base alle citazioni di Superbi e Guarini, siano stati terminati entro il 1620-21[16]. Quell’impresa, come cercherò di documentare presto, va riposizionata entro l’agosto 1617: ritengo infatti che la cifra riportata da Guarini in calce alla descrizione del ciclo sia stata messa lì con il preciso intento di indicarne la conclusione. Lo documenta la presenza, mai rilevata se non sbaglio, della cifra MDCXVII posta nella specchiatura dell’architrave al di sopra della parasta angolare sinistra tra presbiterio e transetto, data cui si accompagna, dall’altro lato, l’abbreviazione MEN AVG[17]. Ciò lega l’impresa bononiana (e la realizzazione pittorica del transetto) al 1616, anno in cui Girolamo Grassaleoni e Ippolito Casoli riprendono a lavorare alla decorazione della navata, lavoro che già avvito negli anni precedenti la morte (1614) del “capocantiere” Girolamo Faccini[18].
A questo “entro il 1617” vanno accostati i dati finalmente a disposizione in merito alle tele di San Paterniano a Fano: il 23 agosto 1618 e il 30 settembre 1619 padre Agostino Bertozzi, canonico regolare appartenente allo stesso ordine che gestiva Santa Maria in Vado, riceve autorizzazione e fondi al fine di ornare la cappella con stucchi, pietre e «pitture nobili»[19].
Viene a crearsi così un margine di tempo congruo per immaginare Carlo a Roma dopo l’impresa di Santa Maria in Vado (con qualche contatto già in corso d’opera, come cercherò di motivare altrove) mentre maturavano i tempi della costruzione e decorazione della cappella di San Paterniano, quindi non prima della fine del 1619. Non credo casuale, infatti, che la decorazione della cappella marchigiana sia strutturata alla romana, con pala d’altare e due tele laterali, ma soprattutto che di quella impresa siano di mano del maestro solo il San Paterniano che risana la cieca Silvia, parzialmente la Visione di san Paterniano e per nulla la Ricognizione del corpo di San Paterniano: eloquente indizio del fatto che il pittore, impegnato in altre mansioni o luoghi, abbia demandato alla bottega quasi 2/3 del lavoro complessivo[20].
Le poche tracce documentarie (del giugno 1618 e del 26 novembre dell’anno successivo), ci dicono che Bononi scriveva lettere da Ferrara indirizzate a Sebastiano Munarini per scusarsi del ritardo con cui lavorava alla Resurrezione destinata all’Oratorio della Confraternita dell’Invenzione della Croce a Reggio Emilia, segno di una evidente difficoltà a lavorare, forse proprio a causa della sua intermittente assenza dalla bottega ferrarese[21]. Non mi pare un caso che quella Resurrezione, purtroppo dispersa, raggiunga la città reggiana solo nell’aprile del 1622, licenziata assieme ad altre opere che presuppongono, anche per un pittore veloce come lui, la presenza a Ferrara, come ad esempio le Nozze di Cana per il refettorio di San Cristoforo alla Certosa, terminate nel giugno dello stesso anno[22].
Alla luce di questi piccoli appunti attorno all’ancora nebuloso viaggio romano, appare sempre più stimolante tornare ad affrontare il “file” Bononi con armi critiche meno condizionate dalle impostazioni del passato. Al contempo, rappresenta un urgente bisogno primario la necessità di impegnarsi a fondo per dare un corpo fisico alla memoria fotografica qui presentata: quel capolavoro, infatti, contribuirà in modo determinante ad arricchire l’opera critica di riscoperta di questo importante protagonista della cultura figurativa emiliana del Seicento[23].
Note
[1] Proprio per ovviare a questi problemi atavici e per certi versi irrisolvibili, si è cercata la via della catalogazione online attraverso gli strumenti forniti dall’ICCD quali SigecWeb, come annunciato su questa rivista un anno fa (ne hanno parlato qui). La difficile convivenza con questo sistema pachidermico e di difficile gestione ha indotto la Direzione dei Musei di Arte Antica a rivolgersi a sistemi più dinamici e privati, i cui primi frutti saranno visibili, non solo per la fototeca, già entro la metà del 2017.
[2] E. Ritucci, Fotografie e cartoline dal Fondo Gualtiero Medri, “MuseoinVita”, 1 febbraio 2015, consultabile on line qui.
[3] Per gli articoli sulla rivista: A. Rizzi, Note ferraresi, “Musei ferraresi”, 4, 1974, pp. 58–59; M.A. Novelli, Note ferraresi, “Musei ferraresi”, 5-6, 1975-76, pp. 51–56; Id. Nuovi accertamenti cronologici per Carlo Bononi, “Musei ferraresi”, 13–14, 1983-84, pp. 127-132. Per altre opere riprodotte a stampa e illustrante in cataloghi o mostre il riferimento è principalmente R. Varese e A.M. Visser Travagli (a cura di), La chiesa di San Giovanni Battista e la cultura ferrarese del Seicento, cat. della mostra, direzione (Ferrara, 1981-1982), Milano 1981.
[4] In realtà, i metodi di catalogazione di allora lasciano credere che la data si riferisca più alla stampa che allo scatto. Il numero di inventario è il 53.444; arrivo a questa foto nell’ambito delle ricerche preparatorie per la mostra Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, Palazzo dei Diamanti, 14 ottobre 2016 – 8 gennaio 2017, a cura di Francesca Cappelletti e dello scrivente, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte.
[5] D. Benati in D. Benati e A. Mazza (a cura di), Alessandro Tiarini. La grande stagione della pittura del ‘600 a Reggio, cat. della mostra (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, Chiostri di San Domenico, 24 marzo-16 giugno 2002), Milano 2002, pp. 115-117 cat. 51.
[6] Ho avuto modo di confrontarmi al riguardo con Daniele Benati, Jadranka Bentini, Francesca Cappelletti, Michele Danieli, Angelo Mazza e Cecilia Vicentini: a tutti loro va la mia riconoscenza per lo stimolante scambio di opinioni. Come accennato sopra, gli inventari interni sono abbastanza lacunosi riguardo le circostanze in cui è stato effettuato lo scatto e non ha dato gli esiti sperati interpellare la memoria del fotografo e del Direttore dei Musei di allora: se il primo ricorda il dipinto ma non il luogo dello scatto, il secondo non ha memoria né dell’uno né dell’altro. Li ringrazio entrambi per la cortese disponibilità.
[7] E. Voss, Il «Genio delle Arti» di Carlo Bonone, “Antichità viva”, I, 4, 1962, pp. 32-35, la tela fu resa nota quando si trovava sul mercato antiquario a Monaco di Baviera, successivamente è entrata nella collezione Lauro a Bologna ed è stata analizzata più volte da D. Benati in D. Benati e P. Giordani (a cura di), Stanze bolognesi. La collezione Lauro, Bologna 1994, pp. 75-76 cat. 28; Id. in D. Benati (a cura di), Itinerari d’arte: dipinti e disegni dal XIV al XIX secolo, Bologna 2016, pp. 46-48 cat. 10. Una replica sicuramente antica ma assai impacciata e non autografa è presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna cfr. M.A. Novelli in J. Bentini, G.P. Cammarota, A. Mazza, et al. (a cura di), Catalogo generale. Pinacoteca Nazionale di Bologna, vol. II: Da Raffaello ai Carracci, Venezia 2006, p. 345 cat. 225.
[8] Benati in Stanze bolognesi cit., p. 75.
[9] Il dipinto del Merisi è prevalentemente datato sul 1602-03, cfr. M. Gregori in Caravaggio e il suo tempo, cat. della mostra (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, 14 maggio – 30 giugno 1985), Napoli 1985, pp. 277-281 cat. 79, ma non manca chi ne anticipa l’esecuzione al 1599-1600: cfr. F. Bologna, L’incredulità del Caravaggio, Torino 1992, p. 315. Sull’opera e sul suo successo, al di là di alcune forzate letture simboliche, è utile la lettura di H. Röttgen, Caravaggio. L’amore terreno o la vittoria dell’amore carnale (prima ed. Frankfurt am Main 1992), Modena 2006.
[10] Amsterdam, Rijskmuseum, deposito della Rijksakademie van Beeldende Kunsten del 1979, mm 221×174 mm, inv. RP-P-H-H-900. Info aggiuntive qui. Era stata pubblicata, notandone la relazione con Bononi, da A. Moir, Caravaggio and His Copyist, New York 1976, p. 129 (nota 208), pl. 44, più di recente in Vom Adel der Malerei: Holland um 1700, cat. della mostra (Colonia, Wallraf-Richartz-Museum & Fondation Corboud, 14 ottobre 2006 – 21 gennaio 2007), Köln 2006, p. 19, cat. 9. Il legame notato da Michele Danieli (https://micheledanieli.wordpress.com/2016/11/09/wie-is-adriaen-van-der-werff/) tra il Genio Lauro e l’Allegoria amorosa di Adriaen van der Werff nello stesso museo è mediato proprio dall’incisione in oggetto.
[11] È molto chiaro in tal senso C. Brisighella, Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara, ed. a cura di M.A. Novelli, Ferrara 1991, p. 459, che vide il dipinto in Santo Spirito: «Il Cristo posto nel Sepolcro, così grandiosamente dipinto, che vedesi nell’ultima cappella della famiglia Rosselli, fu portato da Roma dal Dott. Giacomo Rosselli, il quale lo fece cavare dall’originale di Michel-Anolo [sic.] di Caravaggio, che si conserva colà nella chiesa nuova de’ padri della Congregazione dell’Oratorio». La pala diventa di Bononi con C. Barotti, Pitture e Scolture che si trovano nelle Chiese…, Ferrara 1770, p. 171, notizia ripetuta in seguito dalle altri fonti ad eccezione di A. Frizzi, Guida del forestiere…, Ferrara 1787, p. 82 (senza autore).
In epoca moderna l’attribuzione a Bononi è stata lanciata da A. Emiliani, Carlo Bononi, Milano 1962, p. 48, sulla base della catalogazione museale e all’oscuro della provenienza. La confusione sopra riportata relativa al giudizio di Brisighella è in G. Degli Esposti in J. Bentini (a cura di), La Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Catalogo generale, Bologna 1992, pp. 398-399 cat. 437. Sulla base dello stile hanno rifiutato il nome di Carlo sia M. Ferretti, Due dipinti «fuori contesto» all’Osservanza di Bologna, “Prospettiva”, 57–60 (Scritti in ricordo di Giovanni Previtali, vol. II), 1989-90, p. 64 nota 27, che L. Ficacci, L’opera ferrarese di Carlo Bononi e del Guercino, in J. Bentini e L. Fornari Schianchi (a cura di), La pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento, vol. II, Milano 1994, p. 298 nota 37.
[12] Fonte di gran parte delle incomprensioni cronologiche legate al percorso bononiano, Baruffaldi va letto anche in questo caso con molta cautela. Vale la pena riprodurre per intero il passaggio sul viaggio romano, descritto inverosimilmente come il primo fra i viaggi di studio, compiuto in età già matura. È tratto da G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi (1697-1730), vol. II, Ferrara 1846, pp. 125-126: «Sconosciuto affatto e come semplice scolaretto entrò in Roma: ivi osservò la magnificenza di tutte le cose, ma specialmente nelle chiese e nei palagi la ricchezza delle pitture de’ primi maestri del mondo: gli furono aperte le gallerie più rinomate, e le stanze de’ più celebri pittori, che a quel tempo operassero in Roma; ed in tal guisa ebbe campo di osservare ciò che più abbisognavagli per riuscire valente come desiderava. Ciò però che a lui più diede nell’umore fu l’accademia di pittura, che trovò aperta a profitto universale di chi voleva applicarsi a tal professione, per la diversità delle maniere, e delle opinioni, che correano e s’accordavano in belle dispute, ed in istudiati esemplari, che si vedeano. Il miglior comodo, ed il più utile insieme al suo bisogno fu quello dell’accademia del nudo colà frequentata: in questa egli pose ogni studio di maniera che d’un tal capitale s’arricchì a forza d’osservazioni, che le sue opere fatte dappoi non possono desiderare in questo genere maggiore perfezione. Fu eziandio attentamente da Carlo esaminata la notomia per ben apprendere la misura e la struttura de’ corpi umani, ed a qual segno possano arrivare le parti d’esso per bene e proporzionatamente piantare una figura ben accordata. Due anni, e qualche mese di questo studio fatto in Roma, aggiunsero all’intendimento di Carlo un gran capitale, di maniera che, carico di belle notizie apprese, e fornito d’una quantità di disegni, e di prove, e d’osservazioni fatte, non giudicò più necessaria la sua permanenza in quella metropoli; e perciò si rivolse l’animo a partirsene, ed a restituirsi alla patria». Al soggiorno romano Baruffaldi fa seguire visite di studio a Parma, Venezia e Bologna, ricostruzione che non ha alcuna corrispondenza cronologica con il percorso del pittore così come emerge dalle opere datate.
[13] A. Superbi, Apparato degli Huomini illustri della Città di Ferrara, Ferrara 1620, p. 128.
[14] Emiliani, Carlo Bononi cit., pp. 13-15.
[15] L. Spezzaferro, Ferrara-Roma, 1598-1621: un rapporto di indirette incidenze, in Frescobaldi e il suo tempo: nel quarto centenario della nascita, cat. della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 13 settembre – 31 ottobre 1983), Venezia 1983, pp. 121-122. Questa lettura è diventata col tempo la più accreditata, rilanciata in particolare da Ficacci, L’opera ferrarese cit., p. 298 nota 37, che accosta ai dipinti fanesi alla Pietà di Reggio Emilia ora al Louvre la cui datazione si ritiene di solito scalabile entro 1618; e D. Benati, Itinerario di Alessandro Tiarini, in Benati e Mazza (a cura di), Alessandro Tiarini cit., p. 33 nota 59, per il quale Roma è di «certo anteriore al 1618» e che, a ragion veduta, accosta all’esempio di Saraceni quello di Vouet volto «a cogliere quanto di più sensuale e di teatralmente atteggiato poteva esprimersi nella lezione di Caravaggio, in vista di una pittura di forte impatto fisico e, insieme, sentimentale» (anche se l’esempio indicato, le tele per la cappella Alaleone di San Lorenzo in Lucina, risalgono alla prima metà degli anni Venti).
[16] Superbi, Apparato cit., p. 128; M.A. Guarini, Compendio historico dell’origine, accrescimento, e prerogative delle Chiese…, Ferrara 1621, p. 304. Su Bononi in Santa Maria in Vado cfr. J. Bentini, Maestà e “sbattimenti“. La ricetta di Carlo Bononi per Santa Maria in Vado, in C. Di Francesco (a cura di), La Basilica di Santa Maria in Vado a Ferrara, Milano 2001, pp. 65–82.
[17] Una storia delle pitture murali di Santa Maria in Vado è ancora tutta da scrivere (non aiuta in questa prospettiva il pur importante volume del 2001: La Basilica cit.). Quando si avrà modo di farlo occorrerà partire dalle date che campeggiano nel transetto e nel presbiterio: 1) il 1609 in numeri arabi nella specchiatura dell’architrave al di sopra della prima parasta destra del transetto; 2) il 1617 con riferimento al mese di agosto appena ricordato; 3) il 1680 con riferimento al mese di gennaio che si legge nelle due paraste di imposta del catino absidale. La rilevazione delle date è stata condotta con l’aiuto e il prezioso sostegno di Fabio Bevilacqua e di Romeo Pio Cristofori.
[18] Cfr. B. Ghelfi, Pittura a Ferrara nel primo Seicento: arte, committenza e spiritualità, Ferrara 2011, pp. 113-114, 197, 207, 211-212, dove si evidenza che, in un atto citato da L.N. Cittadella, i due pittori facevano riferimento a lavori già pagati e ampiamente iniziati ancora da terminare. Va dato atto a Barbara Ghelfi (in op. cit.) di essere stata l’unica a legare il lavoro degli appena citati maestri con il ciclo di Bononi, pur continuando a credere nella convenzionale conclusione “entro il 1620-21”. Mi chiedo a questo punto se il 1609 riportato nella nota precedente non abbia la funzione di commemorare l’avvio dei lavori e a quel 1617 il compito di attestarne la fine.
[19] R. Battistini, Apporti pittorici romagnoli, veneti ed emiliani, in G. Volpe (a cura di), Il complesso monumentale di San Paterniano a Fano, Ostra Vetere (AN) 2010, pp. 186-187.
[20] A ciò si aggiunga che il caravaggismo tonale del modello saraceniano rappresentato dalle tele di Santa Maria dell’Anima va scalato lievemente più in là di quanto ritenuto in passato, essendo una delle due saldata nel luglio del 1618: M.G. Aurigemma, Precisazioni per Carlo Saraceni, “Arte Documento”, 6, 1992, pp. 285, 291 nota 13.
[21] Cfr. N. Artioli e E. Monducci (a cura di), I dipinti “reggiani“ del Bonone e del Guercino (pittura e documenti), cat. della mostra (Reggio Emilia, Basilica della B.V. della Ghiara, 20 gennaio – 28 febbraio 1982), Reggio Emilia 1982, docc. IX-X: nella prima il pittore rassicura il mittente riguardo l’esecuzione del dipinto e afferma di essere stato a Reggio Emilia poco prima, nella seconda il pittore accusa ricevuta dell’acconto di 20 ducatoni e riferisce di screzi con don Pompeo Ferini (del Consorzio Presbiteriale) per questioni di quadri e relative trattative.
[22] Novelli, Nuovi accertamenti cit., pp. 127-128. Bononi è sicuramente a Ferrara nel 1620, come attestano Superbi e i documenti relativi alla nuova cornice dell’Estasi di San Carlo Borromeo della Madonnina (cfr. Ghelfi, Pittura a Ferrara cit., p. 90).
[23] Un serio momento di verifca di quanto sappiamo realmente sul pittore sarà la già citata esposizione a Palazzo dei Diamanti, vedi sopra nota 4.
Pubblicato su “MuseoinVita” | 3-4 | giugno-dicembre 2016