Carlo Bononi e la Basilica di Santa Maria in Vado sono legati in modo indissolubile: alla chiesa il pittore deve la sua fama nonché, anche se tra mille traversie, la sua (non definitiva) sepoltura; il tempio deve al pittore gran parte del suo fascino e buona parte della sua stessa immagine. A ben pensarci, non poteva che essere un artista così legato ai concetti di emozione e di empatia a dar forma e colori ad un luogo noto per un miracolo che evoca qualcosa di viscerale e profondo come il sangue e la devozione[1].

La straordinarietà dell’impresa decorativa compiuta dal pittore ferrarese è una costante che emerge nella letteratura locale e forestiera sin da subito. Lo provano le descrizioni ammirate di Agostino Superbi (1620) e Marcantonio Guarini (1621), le «lacrime di giubilo» di Guercino (fonti, seppur tardive, Brisighella e Baruffaldi), l’aggettivo «mirabile» speso costantemente dalle fonti locali e il quasi immancabile apprezzamento dei forestieri in epoca di Grand Tour, ad esempio Charles De Brosses, Charles-Nicolas Cochin o Goethe padre[2].

Luogo di culto del tutto particolare, santuario mariano oggetto di un fervente pellegrinaggio eucaristico derivante dal miracolo del Preziosissimo (detto anche Prodigioso) Sangue, Santa Maria in Vado è stata anche una chiesa conventuale, la chiesa dei canonici regolari lateranensi di San Salvatore. Nella descrizione dell’impresa bononiana, è mancato spesso l’aggancio al contesto che l’ha generata: Bononi compare nella basilica in funzione di un piano iconografico dallo sviluppo diacronico che è bene provare a recuperare.

La decorazione di Santa Maria in Vado: protagonisti, vicende e fasi

Fig.1, Giulio o Cesare Cromer, Presentazione di Maria al tempio, 1609-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, navata.

Dopo i danni derivanti dal terremoto del 1570, la congregazione lateranense promuove consistenti ricostruzioni architettoniche dell’edificio, cui seguirà una campagna decorativa che si protrarrà per circa cinquant’anni, intrecciandosi all’inizio, tra il 1578 e il 1592, con le fasi che ufficializzano il culto del miracolo del Preziosissimo Sangue[3].

Rimane indenne la pala dell’altare maggiore, dipinta da Camillo Filippi attorno al 1552 e raffigurante una curiosa variante dell’Annunciazione alla presenza di san Paolo, che verrà “aggiornata” con le bandelle laterali all’ancona dipinte da Bastianino[4].

Il primo step è avviato nel 1581 dal priore Giovan Battista Domenichi e interessa il presbiterio, dove il giovane Domenico Monio realizza le tre monumentali tele mariane e i profeti affrescati attorno alle finestre[5]. Intorno al 1617, preciseremo le date a breve, si svolge la seconda e più massiccia fase che interessa altre aree zenitali dell’edificio: la navata, il transetto e il catino absidale. Le parti ornamentali ad affresco spettano a Girolamo Faccini, Girolamo Grassaleoni e Ippolito Casoli e spaziano dal fregio che orna l’architrave dell’intera costruzione al finto soffitto a lacunari; quelle figurative, i teleri dei soffitti e il catino absidale, vedono l’ingresso in campo di Carlo Bononi e, in minima misura, di Giulio (o Cesare) Cromer[6]. Contestualmente, a riprova dell’unità iconografica voluta dai canonici lateranensi, a Bononi viene assegnato anche il compito di decorare il vasto catino absidale raffigurandovi l’Esaltazione del Santo Nome, inconsueta iconografia dipinta a olio su intonaco. La commissione di questa fase così significativa si deve all’affascinante figura di Giorgio Fanti, «gran ristauratore di questa chiesa», abate del Vado dal 1613, da alcune fonti indicato addirittura come «buon architeto»[7]. Il suo volto dovrebbe essere raffigurato nelle vesti di san Gelasio papa fra le quattordici figure di santi e beati legati alla storia dei canonici lateranensi, dipinti negli spazi tra le arcate della navata e del transetto, ove sarebbe ritratto anche Battista Guarini nei panni di san Guarino. Queste figure, parte della decorazione realizzata da Faccini, Grassaleoni e Casoli, è assegnata a Bononi sin da subito. Anche su questo andremo a fondo poco oltre.

A partire dalla fine del 1622 ha luogo la terza fase della decorazione, quando è ancora Carlo ad intervenire realizzando due nuove grandi tele nella tribuna e due scene attorno alle finestre, per volere di Tito Prisciani, nel frattempo diventato nuovo priore, e con i fondi di Lucrezia d’Annibale Marocelli[8].

Come si accennava, questi tre momenti distinti vanno letti in modo unitario come parte di un vigilatissimo programma iconografico ideato dai canonici lateranensi. Nato alla fine del Cinquecento per volere di Giovan Battista Domenichi e avviato con Monio, il piano è certamente ampliato, forse sarebbe meglio dire modernizzato, da Giorgio Fanti e concluso, con ulteriori correzioni, da Tito Prisciani. Sin dall’origine si punta ad una sapiente miscelazione tra le storie della Vergine, le glorie celesti e gli eventi legati al miracolo del Preziosissimo Sangue; il culmine è rappresentato dall’Esaltazione del Santo Nome del catino absidale, in relazione iconografica strettissima con l’Annunciazione della pala d’altare maggiore, concepita come l’elemento generatore dell’intero senso teologico della decorazione.

Ricostruito lo spirito organico delle diverse fasi, occorre fare chiarezza definitiva sulla datazione del primo intervento di Bononi nell’edificio. Sulla scorta di quanto pubblicato da Superbi (1620) e da Guarini (1621) si è soliti ritenere che il ciclo sia stato iniziato dall’artista nel 1617 – data riportata in margine alla minuta descrizione del ciclo fornita dallo stesso Guarini – e terminato entro il 1620-21, quando le due fonti ne fanno esplicita menzione[9]. Solo di recente questa convinzione è stata incrinata collegando il lavoro di Bononi alla presenza in cantiere di Girolamo Grassaleoni e Ippolito Casoli attivi sul fregio degli «archi delle Capelle» e della «cuba», ovvero del presbiterio; nel 1616, infatti, i due artisti riprendono un’impresa avviata prima della morte del “capocantiere” Girolamo Faccini, deceduto nel 1614 e al quale Brisighella assegna i profeti dei pennacchi della finta cupola, e che prevedeva il completamento di quel «che resta a farsi cominciando dal mezzo in giù dalle finestre, con tutto il cornisone, friso, architravo, archi, sottarchi, lunette fra i detti archi da ogni parte nella nave di mezzo»[10]. Questo passo è, agli occhi degli storici dell’arte in buona fede, alquanto chiaro: il «che resta a farsi cominciando dal mezzo in giù dalle finestre» lascia intendere chiaramente che i soffitti a quelle date erano già stati ornati.

La conferma che Bononi ha lavorato contemporaneamente al team di decoratori trova conforto e conferma nel monumento stesso: nella trabeazione al di sopra della parasta angolare sinistra posta tra presbiterio e transetto è riportata infatti la data MDCXVII, accompagnata specularmente dall’altro lato la dizione MEN AVG, vale a dire “agosto 1617”[11]. Che questa data attesti la conclusione di un ciclo iniziato qualche anno prima lo certifica la presenza del “1609”, questa volta in numeri arabi, nella trabeazione al di sopra della prima parasta destra del transetto[12].

Rilevare questi dati, affiancandoli alla lettura dei pochi documenti disponibili, porta ad una ricostruzione abbastanza lineare: nel 1609 Faccini, Grassaleoni e Casoli avviano la decorazione dei soffitti e del fregio, la morte di Faccini nel 1614 ne rallenta l’esecuzione che verrà poi sbloccata nel 1616 e conclusa nell’agosto del 1617.

Del tutto logico, quindi, dedurne che Bononi abbia realizzato e posto in opera i propri teleri nei soffitti e il catino absidale negli stessi momenti, prima dello smontaggio dei ponteggi e dell’apposizione dell’attestazione cronologica sopra riportata.
Non a partire dal, quindi, ma entro il, anzi entro l’agosto di esattamente 400 anni fa.

Questa nuova lettura delle dinamiche dei fatti ha conseguenze molto importanti nella ricostruzione della carriera di Carlo, come si è documentato in occasione della recente rassegna monografica a Palazzo dei Diamanti[13], riverberandosi in modo molto significativo anche nell’interpretazione di questa prima fase del suo coinvolgimento in Santa Maria in Vado.

Il primo tempo di Bononi in Santa Maria in Vado: prove generali di Barocco

Appartiene a tale momento l’esecuzione delle figure a mezzobusto con una tecnica mista – non quindi il convenzionale affresco – tra le arcate delle pareti sud di navata e transetto[14]. La verve vitalistica delle posture e gli intenti ritrattistici – specie nel san Guarino e nel san Gelasio ove sarebbero ritratti rispettivamente Battista Guarini e Giorgio Fanti – testimoniano che la gracile esecuzione è certamente sostenuta dal magistero di Carlo, ma è ipotizzabile che il maestro, impegnato nella realizzazione dei teleri, ne abbia delegato la realizzazione alla bottega o agli stessi Grassaleoni e Casoli.

Ma è nel grande formato che Bononi si esprime a livelli clamorosi, superando d’un colpo quanto creato fino a quel momento. È una macchina dello stupore quella allestita da Carlo al Vado nella quale la creazione di spazi aperti convive con arditissimi sottinsù e con architetture “da quinta” teatrale all’interno delle quali le figure, pur plasmate su spartiti più antichi, si muovono con una libertà che lascia presagire l’arrivo della nuova stagione barocca.

Fig. 2, Carlo Bononi, La Santissima Trinità adorata dai beati, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, navata.

Fig. 2, Carlo Bononi, La Santissima Trinità adorata dai beati, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, navata.

Nelle membra neo manieriste della Santa Chiara con l’ostensorio che scaccia i saraceni dipinta nel 1614 per Margherita Gonzaga (e ora a Mantova, Palazzo Ducale), infatti, Carlo inietta il sangue nuovo di formule espressive che miscelano la Parma antica (Correggio) e moderna (Badalocchio e Lanfranco) con la Bologna coeva (Ludovico Carracci) e con la Venezia dell’altro ieri. Il risultato è una prova di forza che – siamo entro il 1617, va ripetuto – non ha quasi eguali fino a quel momento in Emilia.

Di tutti questi riferimenti, è la Laguna ad indicare le risorse figurative che consentono di compiere questo balzo. Al di là dell’indicazione “di genere” relativa al ricorso al soffitto a cassettoni (seppur dipinto) con teleri incassati, emerge forte una connessione quasi spirituale con i due Jacopo, Robusti e Negretti, Tintoretto e Palma il Giovane, dominatori della scena lagunare di fine Cinquecento. Una connessione che deve essere maturata attraverso un soggiorno a Venezia molto fruttuoso, effettuato proprio alla ricerca delle formule da applicare al Vado[15].

Tintoretto e Palma arricchiscono l’universo repertoriale di Bononi affiancando, non sostituendo – è bene sottolinearlo – i riferimenti identificati di solito dalla critica: Correggio per la sensazione di meraviglia e stupore che il catino regala ai suoi osservatori, la ricerca del naturale dei Carracci, in special modo l’intensità dolente di Ludovico.

L’inspessimento delle ombre nei volti (specie nella Visitazione e nel Assoluzione) è forse l’omaggio più esplicito a Tintoretto, dal quale compaiono qua e là citazioni quasi letterali, come nel catechista del Miracolo che, in controparte, riprende la posa del soldato di destra della Vittoria di Stefano Contarini sui milanesi al Lago di Garda nella Sala del Maggior Consiglio. Persino la predilezione per la forma ottagonale – di certo già in uso a Ferrara sin dai tempi di Dosso (casa Cestarelli) e riproposta di recente in Palazzo dei Diamanti – appare debitrice agli esempi tintoretteschi veneziani pubblici e privati[16].

Con Palma il rapporto appare ancora più stretto, e non solo in questa occasione: al Vado, infatti, Carlo mostra di conoscere benissimo molte opere veneziane del Negretti. Mi limito a due esempi pregnanti. Un primo esempio è costituito dalle tele del ciclo eucaristico di Santa Maria Assunta a Venezia (1589-90), specie la Caduta della Manna e il Davide che riceve da Abimelech il pane di proposizione: da queste vengono desunti gli scorci drammatizzanti e la figura di spalle intenta a trasportare un fagotto che ritroviamo nella Visitazione[17]. La seconda testimonianza è costituita da un’opera purtroppo perduta: l’Assunzione della Vergine dipinta attorno al 1582 sul soffitto della Sala dell’Albergo della Scuola di Santa Maria della Giustizia e di San Girolamo, nota attraverso due frammenti (uno all’Ermitage, l’altro in collezione privata milanese), ma che è possibile recuperare quasi integralmente dal suggestivo modelletto conservato alla Fondazione Querini Stampalia[18]. Bononi deve aver riflettuto tantissimo su questa composizione, ricavandone suggestioni nel micro come nel macro contesto. Il capolavoro scomparso di Palma compare più volte nel tempio vadese, ora sotto forma di citazioni letterali – si guardi alla figura del terzo apostolo di spalle in basso a sinistra replicata alla sinistra della composizione del Miracolo – ora come suggestioni gestuali – il braccio sollevato a formare un semicerchio dell’apostolo che solleva il sudario nella tomba della Vergine replicato più volte, ad esempio nel San Sebastiano che, nella Trinità adorata dai beati, guarda verso il basso. Vedremo tra poco un altro esempio.

Fig. 3, Carlo Bononi, Visitazione, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, navata.

Fig. 3, Carlo Bononi, Visitazione, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, navata.

Definito il campo e le fonti di ispirazione principali del capolavoro bononiano, possiamo ora leggerne i dettagli. Partiamo dalla prima scena, orientata nel senso dell’ingresso, che le fonti, a ragion veduta, assegnano genericamente a «Croma» o a uno dei Cromer, ovvero il padre Giulio o il figlio Cesare[19]. Nella Presentazione di Maria al Tempio (fig. 1), questo il soggetto, è da escludere a qualsiasi livello, anche ideativo, il coinvolgimento di Bononi: essa è il prodotto di una cultura sostanzialmente più antica, orientata verso riferimenti veneziani degli anni Ottanta, con quelle figure ben orchestrate ma così minute rispetto alla predominanza della talvolta incerta architettura. Il profilo artistico dei due Cromer non è ancora chiarissimo e la scansione temporale che abbiamo definito complica davvero le cose, perché all’avvio dell’impresa, nel 1609, Giulio era ancora vivo (morirà nel 1611)[20]: nulla lascia escludere, ad esempio, che l’incarico di realizzare i teleri del soffitto sia stato assegnato a Giulio Cromer per poi essere deviato su Carlo intorno al 1615-16. Alla luce di queste difficoltà, è pertanto consigliabile tenere ancora aperta la paternità della Presentazione tra Giulio e Cesare, segnalando comunque la stretta relazione con la pala raffigurante l’Apparizione di Cristo a santa Gertrude collocata sul secondo altare a sinistra[21].

Nei successivi teleri compare in scena l’alto magistero di Bononi. La Santissima Trinità adorata dai beati (fig. 2), opera non sempre considerata come meriterebbe, evidenzia i passi avanti compiuti dai tempi della già citata Santa Chiara di Mantova: in tre anni Bononi si dimostra capace di superare il retaggio manierista orchestrando corpi in scorcio nelle più svariate pose, elaborando forse la prima grande gloria barocca dell’Emilia Romagna. La testimonianza baruffaldiana dell’apprezzamento da parte di Guercino può essere validata accostando alcuni degli scorci bononiani, ad esempio la santa Caterina e il san Francesco, con l’Assunta dipinta nel 1622 per la chiesa del Rosario di Cento; oppure mettendo a confronto il gesto declamatorio del san Sebastiano di Carlo con quello compiuto dal San Girolamo nell’atto di sigillare una lettera della collezione Patrizi Montori dipinto da Guercino negli anni ferraresi[22].

Nella successiva Visitazione (fig. 3) – il cui senso di lettura è contrario rispetto alla Presentazione, va letta dall’ingresso nord –, l’energia, la grandiosità compositiva, l’attenzione al dettaglio naturalistico, rendono impietoso il confronto con la scena, per certi versi analoga, dipinta da Cromer, pur nella comune base di partenza tintorettesca. Sulla scorta di Palma, le figure assumono dimensioni maggiori rispetto allo sfondo, animate da volumetrie che paiono ricordare un certo Ludovico monumentale (quello della già evocata Visione di san Giacinto del Louvre, 1594).

La lettura di quanto descritto finora ha un carattere “avvolgente”: nella navata, la Presentazione di Cromer è impostata per essere vista dall’ingresso, la Visitazione di Bononi, invece, dal transetto, quindi a favore di chi accede dal secondo ingresso posto sul lato nord, di fronte al tempio del Preziosissimo Sangue. Entrambe le scene “incontrano” una gloria celeste, la Trinità adorata dai beati, a sottolineare la necessità dell’atto volontario di “presentarsi” per avere accesso alla grandezza divina[23].

Un simile percorso è suggerito anche dal rapporto che lega i due ottagoni del transetto, il Miracolo del Preziosissimo Sangue a destra (fig. 4) e l’Assoluzione del prete incredulo a sinistra (fig. 5), al tondo centrale con l’Incoronazione della Vergine (fig. 6). Nelle due scene legate al Miracolo, Bononi dimostra abilità straordinarie di narratore. La prima scena è un prodigio compositivo che circoscrive la concitazione della scena attraverso le due linee formate dai corpi degli astanti in basso e della volta in alto, espediente che consente di donare centralità assoluta allo spillare del sangue dall’ostia.

Fig. 4, Carlo Bononi, Miracolo del preziosissimo sangue, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, transetto.

Fig. 4, Carlo Bononi, Miracolo del preziosissimo sangue, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, transetto.

Fig. 5, Carlo Bononi, Assoluzione del prete incredulo, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, transetto.

Fig. 5, Carlo Bononi, Assoluzione del prete incredulo, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, transetto.

Lo scurire i volti degli astanti dell’Assoluzione appare come un’ulteriore riprova del peso enorme avuto da Venezia nella genesi del ciclo. La centralità dell’ostia della scena precedente è qui occupata dal volto del prete che, secondo la versione del miracolo narrata da Nicola Cusano nel 1469 circa e da Celio Calcagnini nel 1526, non credeva fino in fondo all’eucarestia e che, grazie al miracolo, si converte e si presenta al cospetto del vescovo di Ravenna per farsi perdonare[24].

L’Incoronazione della Vergine (fig. 6), la gloria di Maria, è posta al centro della crociera, all’interno di una finta cupola certamente coeva, illusorio espediente tecnico che richiama soluzioni mantovane più antiche (Giulio Romano a Palazzo Te) e romane più recenti (gli Alberti in San Silvestro al Quirinale). La funzione marcatamente scenografica di questa composizione non è sfuggita agli occhi attenti di Guercino: testimonia infatti Carlo Brisighella, pronipote di Bononi, che questa era l’opera che il Centese amava di più, specie la figura dell’«Angelo che mostra di sonar la viuola» la quale, con la sua «attitudine cosí ben disegnata in atto di guardare all’ingiù, [lo] facea piagnere di stupore»[25].

Fig. 6, Carlo Bononi, <em>Trinità che incorona la Vergine</em>, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, transetto.

Fig. 6, Carlo Bononi, Trinità che incorona la Vergine, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, transetto.

Le nubi massicce sulle quali le figure si appoggiano o si aggrappano sono le stesse che rendono così caratteristica la decorazione del catino absidale: l’Esaltazione del Santo Nome (fig. 7), fulcro liturgico della chiesa. All’Annunciazione della sottostante pala d’altare di Camillo Filippi fa eco un maestoso Cristo risorto attorniato da angeli che indica con un gesto declamatorio il tetragramma in caratteri ebraici del Nome Divino mentre, nella parte terrena, santi e personaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento, rispettivamente a destra e sinistra della composizione, prendono parte alla scena[26].

Bononi esegue questo stupefacente capolavoro a olio su intonaco, esattamente come farà in seguito alla Ghiara, sicuramente sulla scorta di esperimenti analoghi condotti a Bologna dai Carracci qualche anno prima (San Michele in Bosco, 1604-05) e a Ferrara da Scarsellino (cappella Fontana, già in Cattedrale, 1606 circa). In tale prospettiva, il catino dipinto da Bononi si configura come un’impresa tra le più ampie per superficie realizzate con questa tecnica in ambito sacro. L’amore per le tinte scure e i contrasti luce-ombra deve aver portato Bononi a scegliere tale procedimento in quanto l’uso dell’affresco non gli avrebbe consentito di ottenere risultati di pari intensità emotiva.

Fig. 7, Carlo Bononi, <em>Esaltazione del Santo Nome</em>, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, abside.

Fig. 7, Carlo Bononi, Esaltazione del Santo Nome, 1616-17, Ferrara, Santa Maria in Vado, abside.

Il magniloquente eppure naturalistico risultato raggiunto rende Bononi un maestro dalle singolari capacità, specie se si riflette sulla rete dei riferimenti chiamati in causa, quasi tutta composta da modelli non sempre attuali. Il riferimento a Correggio è stato introdotto nel dibattito critico già da Baruffaldi ed è stato fatto fruttare in modo altissimo da Andrea Emiliani, già nel 1959, allorché sottolineava come qui Carlo sia arrivato «prima ancora che i più proclamati fatti romani del Lanfranco […]» sciogliendo «in correggismo le già antiche rigidezze del classicismo carraccesco»[27].

Ma la cultura che abbiamo definito dell’altroieri lo porta ad accostare l’Allegri a Palma. Pesa qui tantissimo la già citata Assunzione della Vergine del soffitto della Sala dell’Albergo della Scuola di Santa Maria della Giustizia e di San Girolamo, nota dalle copie evocate poco sopra, che deve aver suggerito a Bononi il modo per liberare la figura umana nell’aria: deriva da qui, infatti, molto più che dal “solito” eppure necessario Correggio, l’idea dei “piani” semicircolari di nubi soffici ma quasi solide ricolme di angeli atletici e senza ali.

Nell’universo bononiano, però, c’è spazio anche per uno degli attrezzi più utilizzati della palestra del manierismo riformato, la celebre Adorazione dei pastori di Taddeo Zuccari incisa da Cornelis Cort su commissione di Federico Zuccari in occasione della morte del fratello maggiore (1567)[28]: da questo modello Bononi ricava, mutandole appena, le figure di due degli angeli del Vado, quello alla sinistra del tetragramma e quello al di sotto del Cristo.

Un’opera di profonda modernità, quindi, che possiamo accostare agli esiti emozionali di tanta decorazione puramente barocca degli anni a venire, imbastita però su canovacci che gli artisti della sua generazione potevano considerare datati.

Sta in questa capacità – grammaticale e compositiva, empatica ed emozionale – la grandezza di Carlo Bononi in Santa Maria in Vado[29].

La seconda volta

Cinque anni dopo, dopo un determinante viaggio romano e in un momento di grande felicità creativa, di febbrile attività, Bononi torna a lavorare in Santa Maria in Vado[30]. L’esigenza è dettata dalla necessità di completare il ciclo laddove non era stato completato da Monio, ovvero nel presbiterio.

Anche questa volta il suo committente è una personalità forte, Tito Prisciani – da alcune fonti citato come Persiani – successore di Giorgio Fanti nel ruolo di priore del tempio e grande estimatore dell’artista.

Si deve a lui – in una lettera del 4 novembre 1622 indirizzata a un altro committente, Sebastiano Munarini –  una delle più rappresentative descrizioni dell’arte di Bononi: «il signor Carlo merita di essere stimato, perché li colori che lui adopera sono fatti di core liquefatto». Una frase che ha da qualche tempo assunto i connotati di vera e propria definizione dell’intera poetica bononiana[31]. Nella stessa sede, il religioso ci consegna anche informazioni preziose: afferma, infatti, di avergli appena commissionato «quattro gran quadroni che vanno nella nostra tribuna», alti dieci braccia e larghi sei e mezzo raffiguranti una Dormitio Virginis e Sepoltura della Vergine, il «penoso martirio sotto la croce» di Maria, una Fuga in Egitto, una Disputa nel tempio. Com’è stato più volte notato, soggetti e misure non coincidono del tutto con quanto realizzato: al posto dei primi due soggetti, seppur con le dimensioni descritte da Prisciani, oggi troviamo lo Sposalizio della Vergine e le Nozze di Cana; gli altri due temi coincidono ma risultano avere dimensioni minori perché adattati attorno alle finestre del catino absidale. Non sappiamo se Prisciani intendesse commissionare a Bononi il rifacimento anche delle tele di Monio e abbia dovuto rivedere i suoi piani, sta di fatto che le scelte operate sul campo stemperano il tono marcatamente mariano, rafforzando quello cristologico. I finanziamenti sono però privati, e, come già per l’età di Fanti, si fa ricorso alla famiglia Fini, in questo caso a quelli messi a disposizione da Lucrezia d’Annibale Marocelli vedova di Fino Fini. Nel documento, rogato il 17 dicembre 1622 e noto dai tempi di Cittadella e Frizzi, non si citano i soggetti ma il compenso, 2000 lire marchesane, e alcune clausole speciali, ad esempio la raccomandazione che, in caso di morte del pittore, vi fosse l’obbligo per la bottega di terminare l’opera[32].

Oscurate dall’impresa del 1617, le decorazioni del presbiterio e dell’abside hanno attirato meno le attenzioni degli studiosi, forse anche per la difficoltà di raggiungerle per visionarle al meglio. Le due scene attorno alle finestre sono pensate in maniera dialettica: il Riposo (fig. 8) è ambientato in un paesaggio aperto e notturno, mentre la Disputa (fig. 9) in un interno avvolgente e sintetico. È in questa che si avverte più forte l’intervento di aiuti ed anche di una stesura non perfettamente rifinita, priva delle velature colorate finalizzate a tonalizzare i volumi e i chiari e gli scuri (specie nella figura di Gesù)[33].

Sulla scorta dell’indicazioni delle fonti, che segnalano un l’intervento di Alfonso Rivarola detto il Chenda nello Sposalizio della Vergine, i due grandi quadri del presbiterio sono stati letti sovente come testimonianze dell’ultima parte della carriera di Bononi[34].

Se si guardano le tele con occhi meno condizionati, emergono però differenze di non poco conto.

Fig. 10, Carlo Bononi, <em>Nozze di Cana</em>, 1623-24, Ferrara, Santa Maria in Vado, presbiterio.

Fig. 10, Carlo Bononi, Nozze di Cana, 1623-24, Ferrara, Santa Maria in Vado, presbiterio.

Le Nozze di Cana (fig. 10), con il suo tono felicemente narrativo, è uno dei più grandi capolavori di Carlo, non a caso inciso da Andrea Bolzoni nel 1722 assieme al San Giovanni Battista al cospetto di Erode e di Erodiade di San Benedetto, purtroppo andato perduto[35]. Nel riprendere alcune soluzioni “musicali” del giovanile Convito di Assuero, l’artista rigenera queste memorie in una chiave pienamente seicentesca, con accentuazioni così gioiose da donare all’osservatore, nella «vezzosa donzella» (Baruffaldi) posta tra la Madonna e la sposa, uno dei rarissimi sorrisi mai comparsi nei suoi quadri.

I movimenti delle figure, il ritorno ai modelli veneziani ricalibrati sull’esperienza romana, pongono la composizione al fianco dell’omonima tela già nel refettorio di San Cristoforo alla Certosa, ora custodita in Pinacoteca, saldata tra aprile e giugno del 1622. In questa prospettiva, le Nozze di Cana vengono a scalarsi nel 1623-24 circa, al termine del soggiorno reggiano che vide impegnato Bononi alla Ghiara[36]. Non già una delle ultime opere di Bononi, quindi, bensì una dei suoi capolavori della prima maturità.

Ha certamente influenzato il giudizio su questo secondo ciclo la notizia tramandata dalle fonti di un intervento nello Sposalizio (fig. 11) dell’allievo Chenda[37].

Fig. 11, Carlo Bononi e Alfonso Rivarola detto Il Chenda, <em>Sposalizio</em>, 1623-32, Ferrara, Santa Maria in Vado, presbiterio.

Fig. 11, Carlo Bononi e Alfonso Rivarola detto Il Chenda, Sposalizio, 1623-32, Ferrara, Santa Maria in Vado, presbiterio.

La notizia va di certo ridimensionata e il giudizio rivisto al rialzo: la composizione possiede molto dell’intelligenza scenografica del Maestro nonché, in molte parti, la nobiltà di brani di straordinaria pittura, come le mani e i gesti del sacerdote, i panneggi della stessa figura o quella del giovane. Di contro, in molte delle espressioni dei volti si riscontra il tipico tocco trasognato e un po’ imbambolato del Rivarola, così come si esprime in opere come il Battesimo di sant’Agostino della Chiesa del Gesù di Ferrara. Alcune aree del dipinto (specie le figure centrali) reagiscono alla luce con una materia e una finitura più opaca. Tutto questo obbliga ad estendere la testimonianza del sempre ben informato Brisighella: il quadro «fu disegnato dal medesimo Carlo Bononi, ma prevenuto dalla morte non potè ridurlo al colorito, onde si lasciò alla cura di Alfonso Rivarola detto il Chenda suo scolare, il quale vi espresse sul disegno del maestro». Insomma, l’allievo non intervenne su un quadro allo stato progettuale ma su un’opera in inoltrato stato di avanzamento e in alcune parti già rifinita. Un’opera che, nonostante gli interventi del non sempre brillante allievo, restituisce intatto il tono notturno e appassionato così tipico delle opere finali dell’artista che aveva dato forma e sostanza ad una delle chiese più affascinanti di Ferrara e che sarà sepolto, stando al racconto apparentemente riparatore di Baruffaldi, a pochi metri da questo quadro[38].


Note

[1] Il testo che segue è una versione ampliata delle parti dedicate a Santa Maria in Vado pubblicate in G. Sassu, Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, in G. Sassu e F. Cappelletti (a cura di), Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina ferrarese, cat. della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 14 ottobre 2016 – 7 gennaio 2018), Ferrara 2017, pp. 184-191, 251-253. Rispetto alle letture tradizionali, sposando ipotesi critiche maturate da qualche tempo, nel catalogo della mostra si propone una lettura meno acritica del racconto biografico fornito da Girolamo Baruffaldi e da chi, dopo di lui, ne ha ripreso alla lettera gli argomenti. La reazione delle vestali della ferraresità non si è fatta attendere, con i consueti deliziosi risultati in materia di confusione tra affermazioni e prove documentarie. Tratterò di questo e di altro in Sostiene Baruffaldi: indagine su di un testimone al di sotto di ogni sospetto, in Nell’età di Bononi. La cultura figurativa a Ferrara tra gli Este e la Legazione (1590-1630), XX Settimana di Alti Studi dell’Istituto di Studi Rinascimentali, 9-11 novembre 2017.

[2] A. Superbi, Apparato degli Huomini illustri della Città di Ferrara…, Ferrara 1620, p. 128; M.A. Guarini, Compendio historico dell’origine, accrescimento, e prerogative delle Chiese, e Luoghi Pij della Città e Diocesi di Ferrara, Ferrara 1621, p. 304; C. Brisighella, Descrizione delle pitture e sculture della città di Ferrara (1700-1735 ca.), a cura di M.A. Novelli, Ferrara 1991, p. 385; G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi (1697-1730), vol. II, Ferrara 1846, pp. 138-143; C. Barotti, Pitture e Scolture che si trovano nelle Chiese, Luoghi pubblici, e Sobborghi della Città di Ferrara, Ferrara 1770, pp. 18, 146; G.A. Scalabrini, Memorie istoriche della Chiese di Ferrara e de’ suoi borghi, Ferrara 1773, pp. 318-319; C. Cittadella, Catalogo istorico de’ pittori e scultori ferraresi e delle opere loro, vol. IV, Ferrara 1783, p. 253; A. Frizzi, Guida del forestiere per la città di Ferrara, Ferrara 1787, pp. 146-147; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia (1795-96), a cura di M. Capucci, vol. V, Firenze 1974, p. 171; G. Canonici Fachini, Due giorni in Ferrara…, Ferrara 1819, p. 92; F. Gandini, Viaggi in Italia, vol. VI, Cremona 1833, p. 418; F. Avventi, Il Servitore di Piazza…, Ferrara 1838, pp. 130-131; G. Cavallini, Omaggio al sangue miracoloso che si venera nella basilica parrocchiale di Santa Maria del Vado in Ferrara, Ferrara 1878, pp. 501, 555-556; L. Colagiovanni, Notizie storiche sulla basilica di S. Maria in Vado e santuario del sangue prodigioso, Ferrara 1936, pp. 31-32, 37-39.
Per i viaggiatori a Ferrara: G. Cusatelli (a cura di), Viaggi e viaggiatori del Settecento in Emilia e in Romagna, Bologna 1986, vol. I, pp. 131, 141 e vol. II, p. 401. Per il successo di Santa Maria in Vado si veda L. Scanu, Tra sécheresse e manière grande. L’occhio di critici e viaggiatori su Bononi: un percorso eterodosso, in Sassu-Cappelletti, Carlo Bononi cit., pp. 85-89.

[3] Ovvero: la concessione delle prerogative all’altare da parte di Gregorio XIII (1578); la fondazione della Congregazione del Preziosissimo Sangue (1583); la definitiva investitura liturgica da parte del vescovo Giovanni Fontana (1592). Per tutto questo si veda: L. Chiappini, Storia e tradizione del prodigio eucaristico, in C. Di Francesco (a cura di), La Basilica di Santa Maria in Vado a Ferrara, Milano 2001, pp. 16-17, con bibliografia precedente.

[4] Per la pala: G. Sassu in F. Scafuri e G. Sassu, Chiese a Ferrara tra storia, fede e arte, Ferrara 2009, pp. 10-11, e A. Pattanaro, Camillo Filippi “pittore intelligente”, Verona 2012, pp. 98-102; per l’ancona: A. Santucci, Tradizione e innovazione nelle carpenterie d’altare ferraresi post-tridentine, in J. Bentini e L. Spezzaferro (a cura di), L’impresa di Alfonso II. Saggi e documenti sulla produzione artistica a Ferrara nel secondo Cinquecento, Bologna 1987, p 249.

[5] La Natività della Vergine e la Natività di Cristo sulle pareti laterali e l’Assunzione sul soffitto. Cfr. G. Frabetti, L’autunno dei manieristi a Ferrara, Ferrara 1978, pp. 60, 73-75; R.P. Cristofori, Giovanni Battista Domenichi a Santa Maria in Vado: committente “vigilantissimo” per Domenico Mona, “MuseoinVita. Musei di Arte Antica del Comune di Ferrara | Notizie e approfondimenti”, 3-4, 2016, museoinvita.it.

[6] Navata, dall’ingresso: Presentazione di Maria al Tempio (Cromer), Trinità adorata dai beati e Visitazione di Maria; transetto, da destra: nella crociera Incoronazione della Vergine, ai due lati gli ottagoni con il Miracolo del Preziosissimo Sangue e l’Assoluzione del prete incredulo da parte del vescovo di Ravenna.

[7] Brisighella, Descrizione cit., p. 386. Su Fanti cfr. I. Galvani e C. Mezzetti in C. Mezzetti (a cura di), Le iscrizioni sepolcrali e civili di Ferrara con le piante delle chiese raccolte da Cesare Barotti, vol. III: Santa Maria in Vado, Ferrara 2015, pp. 314-317. Molto illuminante quanto scrive F. Rodi, Annali di Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, Classe I, 645, vol. II, cc. 515r-516v: «il Padre Don Georgio Fanti Ferrarese theologo et casista molto singullare, huomo di santissima vita e di honorati costumi, splendor di questo secolo e hornamento della sua Relligione, dopo haver ricevuto et con grande sua riputatione esercitato i carichi più principalli della medesima sua relligione, e cibato continuamente diversità di popoli in più città e Provincie con la parolla di Dio, predicando a gran frutto dell’anima et a gloria di S. D. N. finalmente ridotto in età assai mattura, quasi continoamente capo della famiglia del suo monasterio, con spesa di molte et molte migliara di scudi, senza punto agravar della spesa il medesimo monasterio, ne la sua Provincia nel ristorar che fece tutto il monasterio, et in ridur la fabrica antica alla moderna, levando, aggiongendo et abbellendo nella forma e nel modo che hora si vede». Devo la segnalazione e la trascrizione alla cortesia di Andrea Marchesi.

[8] Ai lati del presbiterio, le Nozze di Cana, a sinistra, e lo Sposalizio della Vergine, a destra. Attorno alle finestre, il Riposo in Egitto, a sinistra, e Gesù fra i dottori, a destra.

[9] Superbi, Apparato cit., p. 128; Guarini, Compendio cit., p. 304. L’esecuzione 1617-1620-21 è opinione prevalente: A. Emiliani, Carlo Bononi, Ferrara 1962, pp. 21, 50-51, cat. 24 (il quale riteneva però che la descrizione più sintetica di Superbi celasse un’esecuzione ancora in corso nel 1620); M.A. Novelli, Bonone, Carlo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XII, Roma 1970, p. 355; L. Lorenzini in S. Baviera e J. Bentini (a cura di), Mistero e immagine. L’Eucarestia nell’arte dal XVI al XVIII secolo, cat. della mostra (Bologna, Chiesa di San Salvatore, 20 settembre – 23 novembre 1997), Venezia 1997, pp. 196-197, catt. 63- 64; J. Bentini, Maestà e “sbattimenti”. La ricetta di Carlo Bononi per Santa Maria in Vado, in Di Francesco, La Basilica cit., p. 65; L. Ficacci, L’opera ferrarese di Carlo Bononi e del Guercino, in J. Bentini e L. Fornari Schianchi, (a cura di), La pittura in Emilia e in Romagna. Il Seicento, tomo II, Milano 1993, p. 291; M.A. Novelli, Le “Virtù Cardinali” di Carlo Bononi e qualche considerazione sulla cronologia, in M.L. Chappell, M. Di Giampaolo e S. Padovani (a cura di), Arte, collezionismo, conservazione. Scritti in onore di Marco Chiarini, Firenze 2004, p. 269; M. Stefani e P. Stefani, Dalle immagini alla Parola. Interpretazione iconografica di quattro cicli figurativi ferraresi sulla morte e la glorificazione di Gesù Cristo, dal romanico al barocco, in Voi chi dite che io sia? Gesù nel suo e nel nostro tempo, atti del convegno (Ferrara, 11-13 marzo 2005), Ferrara 2007, p. 107.

[10] Il collegamento tra i documento e l’attività di Bononi è in F. Cappelletti, Le chiese di Ferrara dopo la Devoluzione: qualche caso significativo per i primi decenni del Seicento e molto lavoro da fare, in R. Varese (a cura di), Immagine dell’invisibile. Spiritualità e iconografia devozionale nella Chiesa di Ferrara-Comacchio, Reggio Emilia 2009, p. 115, e in B. Ghelfi, Pittura a Ferrara nel primo Seicento: arte, committenza e spiritualità, Ferrara 2011, pp. 113-114, 197, 207, 211-212; i documenti si leggono in L.N. Cittadella, Notizie relative a Ferrara, Ferrara 1864, p. 31. La citazione relativa alla cuba è in Guarini, Compendio cit., p. 128; per Faccini autore della decorazione della finta cupola cfr. Brisghella, Descrizione cit., p. 387.

[11] Ho anticipato quanto qui esposto in G. Sassu, Un nuovo (?) Genio delle arti di Carlo Bononi, in «MuseoinVita. Musei di Arte Antica del Comune di Ferrara | Notizie e approfondimenti», 3-4, 2016, museoinvita.it.

[12] È da segnalare l’uso di questa tipologia di memoria al Vado: un 1680 in numeri romani con riferimento al mese di gennaio si legge anche nelle due paraste di imposta del catino absidale, segno evidente di altri lavori finora non documentati tra la fase decorativa bononiana e l’aggiornamento settecentesco di Ghedini.

[13] Sassu, Carlo Bononi. L’ultimo cit., pp. 184-191, 226-233.

[13] La parete nord fu ricostruita nel 1834 da Giovanni Tosi e le decorazioni rifatte integralmente da Filippo e Giuseppe Vallini, cfr. F. Bevilacqua e C. Di Francesco in Di Francesco, La Basilica cit., pp. 187-189. L’intervento di Bononi in questa parte della Basilica (e l’identificazione dei ritratti di cui si dirà a breve) è attestato da Guarini, Compendio cit., p. 304 e dalle fonti successive.

[15] A fronte di una lettura di stampo emiliano e segnatamente bolognese (Emiliani, Carlo Bononi cit., pp. 15, 20-22; Bentini, Maestà cit., pp. 65-70), ha invece molto insistito su Venezia, fino ad ipotizzare un soggiorno non breve di Bononi, Ficacci, L’opera cit., p. 291. Come si vedrà, Bononi non «restò piuttosto confuso, che ammaestrato» (Baruffaldi, Vite cit., vol. II, p. 128) da questo viaggio veneziano, anzi.

[16] Un buon confronto è quello con gli ottagoni della Sala degli Inquisitori in Palazzo Ducale a Venezia (specie l’episodio che raffigura il Figliol prodigo, cfr. U. Franzoi, T. Pignatti e W. Wolters, Il Palazzo Ducale di Venezia, Treviso 1990, p. 310 fig. 278; confronto indicato da Ficacci, L’opera cit., p. 291), ma anche con quelli più antichi (1542) dipinti per la casa di Vetro Pisani nel Palazzo San Paterniano, ora alla Galleria Estense (cfr. A. Foscari, Le metamorfosi per Vettor Pisani, in V. Sgarbi (a cura di), Tintoretto, cat. della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 25 febbraio – 10 giugno 2012), Milano 2012, pp. 135-139).

[17] Per il ciclo cfr. S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane. L’opera completa, Milano 1984, p. 126 catt. 412-422.

[18] Sull’opera cfr. Mason Rinaldi, Palma cit., pp. 144-145 cat. 558.

[19] Baruffaldi, Vite cit., vol. II, p. 146: «Croma» e così per quasi tutte le altre fonti eccezion fatta per Brisighella, Descrizione cit., p. 386, che parla di «Giulio Cesare Cromer», e di Barotti, Pitture cit., pp. 147-148 che cita Cesare.

[20] Si deve a Ghelfi, Pittura cit., pp. 202-203, il primo vero tentativo di ricostruzione moderna di questa stirpe di pittori. La studiosa, a p. 114, attribuisce l’opera a Cesare, essendo quest’ultimo vivo al tempo del coinvolgimento del Bononi intorno al 1617. All’oscuro della data di morte di Giulio (1611), E. Riccomini, Il Seicento ferrarese, Milano 1969, p. 28, assegnava a questi la tela.

[21] Che Riccomini, Seicento cit., p. 28 cat. 11, dava a Giulio, mentre Ghelfi, Pittura cit., p. 204, pensa a Cesare. A quest’ultimo la studiosa assegna il telero del soffitto essendo il padre già morto nel momento in cui Bononi lavorò nella chiesa.

[22] Sulle opere cfr. tra gli altri D. Mahon, Giovanni Francesco Barbieri, Il Guercino, 1591-1666, cat. della mostra (Bologna, Museo Civico Archeologico; Cento, Pinacoteca Civica e Chiesa del Rosario, 6 settembre – 10 novembre 1991), Bologna 1991, pp. 100-101 cat. 34, pp. 152-153, cat. 52; N. Turner, The Paintings of Guercino. A Revised and Expanded Catalogue Raisonné, Roma 2017, p. 323 cat. 65.I.

[23] Sono grato a don Riccardo Petroni, parroco di Santa Maria in Vado, per avermi esposto questa suggestiva lettura, così importante per questa porzione del ciclo.

[24] Chiappini, Storia e tradizione cit., pp. 16-17. L’interpretazione un po’ pasticciata di questa scena come la Condanna dei Catari (spesso Gazari) e dei Patarini non ha fondamento alcuno e non ha riscontro nelle fonti più vicine agli eventi, comparendo solo a partire da Scalabrini, Memorie cit., p. 316, peraltro in un passaggio non molto chiaro. La figura che si inginocchia, è da notare, è la medesima che ha in mano l’ostia nell’altro ottagono, ovvero il sacerdote incredulo.

[25] Brisighella, Descrizione cit., 386. È da segnalare la curiosa svista di Scalabrini, Memorie cit., pp. 318-319, che attribuisce l’opera a Scarsellino.

[26] Per una lettura iconografica cfr. Stefani e Stefani, Dalle immagini cit., pp. 108-112. Il ciclo è stato pesantemente restaurato nella parte inferiore sinistra da Francesco Bazzoli nella seconda metà del Settecento a causa del compromesso stato di conservazione; l’intervento è spesso stigmatizzato dalle fonti (ad esempio da Brisighella, Descrizione cit., p. 385), ma curiosamente lodato da Baruffaldi, Vite cit., II, pp. 138-139.

[27] A. Emiliani, Carlo Bononi, in F. Arcangeli, M. Calvesi, A. Emiliani et al. (a cura di), Maestri della pittura del Seicento emiliano, cat. della mostra (Bologna, Palazzo dell’Archiginnasio, 25 aprile – 5 luglio 1959), Bologna 1959, p. 235. Per Baruffaldi, Vite cit., vol. II, p. 138.

[28] Cfr. C. Acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari, fratelli pittori del Cinquecento, Milano 1998, vol. I, pp. 278-279.

[29] La datazione del Vado qui proposta porta a rivedere le dinamiche di alcune relazioni figurative citate dalla critica, come la lunetta di Domenico Fetti, raffigurante Margherita Gonzaga che riceve il modello della chiesa di Sant’Orsola di Palazzo Ducale a Mantova (post 1618), cfr. U. Bazzotti, Margherita Gonzaga e il convento di Sant’Orsola, in E.A. Safarik (a cura di), Domenico Fetti, 1588/89-1623, cat. della mostra (Mantova, Palazzo Te e Galleria e Museo di Palazzo Ducale, 15 settembre – 15 dicembre 1996), Mantova 1996, p. 48) o le decorazioni di Tiarini della volta del braccio ovest e della cupola della cappella Gabbi del 1619 (per le quali cfr. D. Benati in A. Bacchi e M. Mussini (a cura di), Il Santuario della Madonna della Ghiara a Reggio Emilia, Torino 1996, pp. 117-129).

[30] Sulle conseguenzwe del viaggio romano e sulla carriera di Bononi attorno al 1620-25 si veda ora Sassu, Carlo Bononi cit., rispettivamente pp. 226-233, 246-255.

[31] N. Artioli e E. Monducci, I dipinti «reggiani» del Bonone e del Guercino (pittura e documenti), cat. della mostra (Reggio Emilia, Basilica della B.V. della Ghiara, 20 gennaio – 28 febraio 1982), Reggio Emilia 1982, 73-74, doc. XXIV. Insisto su questa frase e sulle implicazioni da anni, prima in Tra immagine e persuasione: dipinti d’altare a Ferrara nella prima metà del Seicento, in G. Sassu (a cura di), Immagine e persuasione. Capolavori del Seicento dalle chiese di Ferrara, cat. della mostra (Ferrara, Palazzo Trotti Costabili, 14 settembre 2013 – 6 gennaio 2014), Ferrara 2013, p. 79; e ora in G. Sassu, Le alterne fortune di un sognatore, in Sassu-Cappelletti, Carlo Bononi cit., p. 36.

[32] Il documento è citato da Cittadella, Catalogo istorico cit., vol. IV, p. 313; Frizzi, Guida cit., pp. 144-145, che definisce «un gioiello tutta la cappella principale»; Canonici Fachini, Due giorni cit., pp. 92-93. È riportato integralmente da Cittadella, Notizie cit., pp. 32-33 (l’erudito però si inganna scambiando le quattro tele con i quattro quadroni del presbiterio, due dei quali di Monio).
Alla sua morte, l’8 ottobre 1626, Lucrezia fu sepolta sotto la volta del Preziosissimo Sangue, in luogo privilegiato. La lastra, irreperibile, è riportata da Barotti: Mezzetti, Le iscrizioni cit., pp. 319-322, n. 106, anche per altre preziose informazioni biografiche sulla donna e sulla sua famiglia.

[33] Nelle schede pubblicate in J. Bentini (a cura di), Un palazzo, un museo. La Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti…, cat. della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 22 marzo – 30 aprile 1981), Bologna 1981, p. 126, si legge che queste opere devono aver avuto un’esecuzione tormentata, come prova la polvere ritrovata dai restauratori tra le stesure e una documentazione presente al tempo nell’archivio di Santa Maria in Vado che riporta uno stato di malattia di Bononi nel 1623 (?): purtroppo queste testimonianze non sono state ritrovate in questa occasione.

[34] Brisighella, Descrizione cit., p. 384; Baruffaldi, Vite cit., vol. II, pp. 143-145; Barotti, Pitture cit., pp. 145-146; Scalabrini, Memorie cit., pp. 318-319; Cittadella, Catalogo cit., IV, pp. 297, 300, 313; Frizzi, Guida cit., pp. 144-145; Cavallini, Omaggio cit., p. 504; Gandini, Viaggi cit., p. 418; Avventi, Il servitore cit., pp. 130-131; L.N. Cittadella, Indice manuale delle cose più rimarcabili in pittura, scultura, architettura della città e borghi di Ferrara, Ferrara 1844, p. 142; Cittadella, Notizie cit., pp. 32-33; L.N. Cittadella, Guida pel forestiero in Ferrara, Ferrara 1873, p. 91 (che li descrive come affreschi); Colagiovanni, Notizie cit., p. 31*. Tra la bibliografia moderna: Emiliani, Carlo Bononi cit., p. 51 cat. 25 (il quale ritiene che le opere siano state terminate nel 1628-32 e che lo Sposalizio della Vergine sia integralmente di Chenda); J. Bentini in Un palazzo, un museo cit., pp. 126-128.

[35] Cfr. E. Russo, Incisori ferraresi nelle stampe del Museo Schifanoia dal XVII al XIX secolo, Firenze 1990, p. 41 cat. 12, per l’esemplare dei Musei di Arte Antica di Ferrara, inv, S/843. L’incisione ha avuto una certa notorietà nell’Ottocento: P. Zani, Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti dell’abate d. Pietro Zani fidentino, vol. VI, Parma 1821, pp. 163-165. Su Bolzoni: R. Varese, Il cardinale Tommaso Ruffo e l’incisore Andrea Bolzoni, in «Analecta Pomposiana», 35-36, 2010-2011, pp. 43-69; R. Varese, «Galleria di pitture del Signor Cardinale Tommaso Ruffo»: presenza e significato nella città di Ferrara, in L. Lorizzo (a cura di), Fare e disfare. Studi sulla dispersione delle opere d’arte in Italia tra XVI e XIX secolo, Roma 2011, pp. 51-52, ma anche il recente A.R. Gordon, A rare engraving of an Italian rococo parade apartment of 1736: Andrea Bolzoni’s print of the interior of the Palazzo Cervelli in Ferrara, «The Getty research journal», 4, 2012, pp. 57–74.

[36] Per il pagamento delle Nozze della Pinacoteca cfr. quanto documenta M.A. Novelli in Brisighella, Descrizione cit., pp. 178, 182 nota 36. L’accostamento cronologico tra le due Nozze è in Ficacci, L’opera cit., p. 291 e Ghelfi, Pittura cit., p. 129.

[37] Brisighella, Descrizione cit., p. 384; Baruffaldi, Vite cit., vol. II, p. 145. Si veda di recente E. Ghetti, Per Gaspare Venturini nel Castello Estense di Ferrara: una proposta e qualche documento, “Arte cristiana”, CIV, 894, 2016, p. 437.

[38] Baruffaldi, Vite cit., vol. II, pp. 170-172. La storia della tripla sepoltura e la posa della lapide da parte di Carlo Brisighella a distanza di 64 anni dal decesso suonano davvero come una forzatura, come ho cercato di evidenziare in Sassu, Carlo Bononi. L’ultimo cit., pp. 279-280.
In chiusura è utile ricordare almeno altre tre opere che si trovano in Santa Maria in Vado e sulle quali aleggia il nome di Bononi.
1) La copia dall’Ascensione di Cristo di Garofalo (ora presso la Pinacoteca Civica di Bari) collocata sull’altare della quinta campata della navata sinistra, eseguita entro il 1621 perché l’originale è citato da Guarini (Compendio cit., p. 384) tra le opere razziate dai cardinal legati (per la copia si veda L. Lodi, Dipinti d’altare e copie di Santa Maria in Vado in Di Francesco, La basilica cit., pp. 110, 119). Il nome di Bononi nasce, se non erro, con Barotti, Pitture cit., p. 147, divenendo costante fino ad oggi; ma è da segnalare come Brisighella, Descrizione cit., pp. 385-386, identifichi in Giacomo Bambini il copista. In attesa del restauro della tela è pertanto consigliabile sospendere il giudizio.
2) La pala della sagrestia raffigurante la Visione di Sant’Agostino che, data a Bononi da tutte le fonti a partire dal fidato pronipote, è stata traslocata sotto l’etichetta di Camillo Ricci da A. Mezzetti, Postille ferraresi. Un seguace dello Scarsellino: Camillo Ricci, «Paragone», XXI, 245, 1970, p. 35. Questa attribuzione pare però funzionare più in foto che dal vivo. Non cancellerei del tutto l’antica attribuzione, a patto che la si contestualizzi: la fissità della composizione può derivare da modelli iconografici, quella della pittura da ampi interventi della bottega attorno al 1608, unico momento di tangenza tra Bononi e Scarsellino.
3) Segnalo infine nei locali superiori della parrocchia una bella teletta raffigurante Santa Chiara con ostensorio ascrivibile al nostro Carlo; l’opera si accompagna ad un intenso San Francesco fuori contesto che appare di grande qualità e bisognoso di essere studiato, credo, in chiave romana.   

Pubblicato su “MuseoinVita” | 5-6 | giugno-dicembre 2017