Il presente articolo è un estratto dalla tesi di laurea magistrale “Cerca il virgiliano Enea in questa gran silva il ramo d’oro”: il mito del principe troiano nella cultura letteraria e figurativa ferrarese da Borso a Alfonso I d’Este, discussa dall’autrice nell’a.a. 2014/15, corso di laurea Storia dell’arte, Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma, (relatore: prof.ssa Claudia Cieri Via, cattedra di Iconografia e Iconologia; correlatore: dott. Gabriele Quaranta).
Al rinnovato interesse per gli studia humanitatis, nella Ferrara estense del Quattro e Cinquecento, fece eco il progressivo aggiornamento delle arti figurative: attraverso l’eleganza e la preziosità delle forme tardo-gotiche, a cui gli artisti locali erano ancora fortemente legati, avveniva la graduale riattivazione degli antichi stilemi trionfalistici della romanitas, funzionali a quella politica per immagini della famiglia d’Este finalizzata ad affermare lo status egemonico del casato sul territorio ferrarese[1].
Con l’obiettivo di legittimare il loro dominio e di imporre la corte estense come modello e misura del mondo, gli Este ricorsero a iconografie antiche in quanto potenti strumenti comunicativi con cui veicolare messaggi ideologici verso specifici interlocutori politici: doveva apparire lampante, infatti, l’assimilazione della loro immagine pubblica agli eroi del passato, in particolare a Enea che, in virtù della sua statura morale e del suo ruolo di capostipite della famiglia[2], costituì fin dall’ascesa politica di Borso un adeguato speculum principis per la dinastia ducale, che nelle manifestazioni artistiche volle celebrare se stessa attraverso l’ostentazione di quegli stessi valori principeschi ascritti all’eroe pagano.
Le rappresentazioni del personaggio letterario non sempre seguirono criteri figurativi tradizionali e univoci obiettivi propagandistici. In un gruppo di opere realizzate tra la seconda metà del XV secolo e la prima metà del XVI, l’assimilazione dell’immagine pubblica dei duchi d’Este a quella di Enea non avvenne in maniera manifesta, bensì attraverso un canale comunicativo intellegibile solo a un pubblico selezionato, partecipe dell’ideologia ducale. Emerge così un fenomeno specifico in cui la figura del virgiliano Enea non appare esplicitamente, ma costituisce il protagonista “assente” delle scene, poiché tanto l’episodio narrato quanto alcuni suoi determinati elementi compositivi costituiscono una velata, ma sensibile allusione ad esso.
L’VIII libro dell’Eneide, dove sono descritte le armi che il dio Vulcano forgiò per farne dono a Enea prima della battaglia contro i Rutuli, subì una rilettura propagandistica da parte degli Este, che vollero trasfigurare ideologicamente il proprio microcosmo cortigiano attraverso la rappresentazione della fucina del dio. L’affresco del mese di Settembre di palazzo Schifanoia (Fig. 1), da riferire alla giovane mano di Ercole de’ Roberti, è la prima opera ferrarese in cui si riscontra quell’approccio allusivo che avrebbe connotato in maniera importante la stagione politico-artistica successiva[3].
- Fig. 1, Ercole de’ Roberti, Settembre, 1469 ca., Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi
Nella lancia che febbrilmente forgiano gli scattanti Ciclopi, esortati da Vulcano, e nelle armature appese lungo l’antro roccioso sta la presenza simbolica di Enea e conseguentemente la magnificentia del duca Borso, intento a ergere Ferrara a faro di civiltà, come un tempo fu l’antica Roma. Le corazze, in particolare, ricordano nella loro gamma cromatica, simulante materiali come il bronzo e il cuoio, l’armatura che il dio Vulcano realizzò per l’eroe, ma la loro foggia moderna, come quella dello scudo a mandorla tipico dell’araldica italiana, le riconduce alla tipologia delle brigantine, corazze di alta rappresentanza rivestite di tessuti e lamelle metalliche, molto in voga sul finire del XV secolo.
Il pensiero allora corre alla contemporaneità del duca Borso, che al principio degli anni Sessanta del Quattrocento dovette porre rimedio al divario tecnologico-militare che separava Ferrara dalle grandi signorie del nord Italia; si rese necessario un aggiornamento e un conseguente perfezionamento, anche artistico, della già avviata manifattura bellica ferrarese attraverso l’apporto di famosi armaioli lombardi, supportati economicamente dalla corte estense nella costituzione di botteghe nel territorio. Tra costoro, Ottolino da Corneto, o dalle Arme, diede il maggiore impulso alla produzione di armi e armature a Ferrara, luogo che in pochi anni divenne uno dei centri tecnologicamente più all’avanguardia dell’intero panorama europeo, grazie anche alla politica aggressiva messa in atto dal futuro duca Alfonso[4].
Nel Settembre di Schifanoia, dunque, l’evocazione dell’attività del milanese Ottolino costituisce occasione di celebrazione dell’operato principesco di Borso d’Este: nell’affresco la figura dell’armaiolo è assimilata a quella del dio Vulcano e la sua bottega trasfigurata nella divina fucina. La sublimazione di tale contesto sottende la celebrazione e la magnificazione del duca, intenzionato a imporsi nell’immaginario cortigiano come redivivo Enea, capace di garantire sicurezza e benessere grazie alle armi che realizzava per lui il nuovo Vulcano e a proiettare Ferrara verso una rinnovata età dell’oro.
L’elevazione di Enea a speculum principis e ad avo estense era finalizzata a gettare le basi di una strategica alleanza con il Papato, feudatario dell’ancora marchesato ferrarese ed erede spirituale-temporale dell’Impero romano. Proponendo le stesse ascendenze e facendo riferimento ai medesimi valori dello Stato Pontificio, Borso non solo dichiarava uguale dignità politica, ma anche la ferma volontà di ottenere la nomina papale a duca di Ferrara, giunta solo poche settimane prima della sua morte nel 1471.
Alla politica borsiana di avvicinamento allo Stato della Chiesa si pose in piena contrapposizione quella del nipote Alfonso I[5]. Nonostante Borso costituisse il principale modello politico per la sua natura liberale e pacificatrice, il giovane duca fin da subito mostrò il suo rifiuto nei confronti del potere temporale papale, da cui provenivano minacce all’indipendenza ferrarese, sempre più persistenti dal momento in cui fu sancita l’alleanza tra la Chiesa e Venezia. La presenza simbolica di Enea nelle opere commissionate da Alfonso I non fu più dettata dalla volontà di rintracciare comuni radici con la Roma pontificia, bensì dall’intento ideologico di contrapporsi ad essa e a tutto ciò che rappresentava attraverso una programmatica ostentazione di ascendenze pagane, più antiche e moralmente più alte dello stesso Papato, e dunque anche politicamente autonome da esso.
Dell’assimilazione di Alfonso I alla figura virtuosa e bellica dell’eroe furono consapevoli tanto i cortigiani quanto la popolazione. Illuminanti a riguardo sono le parole pronunciate nell’aprile del 1524 dal domenicano Matteo Bandello, nell’orazione dedicata a Ercole II dove Alfonso I e il cardinale Ippolito I furono rispettivamente paragonati a Enea ed Ettore: «[…] ricorda e richiama nell’animo l’esempio dei tuoi:/ ti siano di sprone tuo padre Enea e tuo zio Ettore»[6].
Tuttavia la sovrapposizione della figura ducale a quella del Dardanide non avveniva in maniera univoca nelle opere del primo quarto del XVI secolo; la presenza simbolica di Enea, infatti, era declinata in molteplici aspetti ostentativi finalizzati a celebrare l’universalità e la legittimità del ruolo politico di Alfonso I d’Este, guida militare e spirituale e fondatore di una dinastia imperitura.
- Fig. 2, Antonio Lombardo, Fucina di Vulcano, post 1508, San Pietroburgo, Hermitage State Museum
La Fucina di Vulcano (Fig. 2), realizzata da Antonio Lombardo in un periodo di poco posteriore al viaggio a Roma del 1508, è un esempio illuminante della politica culturale alfonsina[7]: l’opera lombardiana faceva parte di un cospicuo gruppo di rilievi marmorei raccolti nello studio de prede vive, ubicato nel secondo piano della Via Coperta, che connotavano l’ambiente come un luogo di raccoglimento filosofico e celebravano, dunque, la figura del duca Alfonso quale principe dotto. La scena della forgiatura delle armi di Enea da parte di Vulcano, ritratto sulla destra come un aitante giovane secondo la tradizione iconografica affermatasi a Ferrara, è figlia del Settembre di Schifanoia. Tuttavia il linguaggio espressivo è profondamente diverso, come differenti furono gli obiettivi politici fissati all’epoca dal duca: lo stile cortese fu soppiantato dal pathos movimentato dell’antichità derivante dal Laocoonte, opera di straordinaria importanza, rinvenuta nel 1506 ed esposta nel cortile del Belvedere vaticano due anni più tardi[8].
La figura tormentata fu interpretata in riferimento al periodo di forti tensioni intercorse tra l’Este e papa Giulio II: Ferrara, uno dei feudi economicamente più prosperi, fu sempre al centro di forti interessi papali, che si accentuarono con la politica imperialista del della Rovere, intenzionato a spegnere le aspirazioni indipendentiste degli Este e ricondurre il feudo emiliano sotto l’egida pontificia. La guerra ideologica trovò sintesi perfetta nel linguaggio classicheggiante padano di Antonio Lombardo, attraverso il quale il duca Alfonso non solo consolidava il consenso popolare nel periodo di massima crisi politica, ma imponeva anche un modello culturale alternativo a quello romano.
Il rilievo raffigura Vulcano che piomba nella scena per esortare i Ciclopi (tra di essi uno cita esplicitamente la postura del già menzionato Laocoonte) a forgiare le armi di Enea, anche in questo caso “presente in absentia“; ma l’aquila estense all’interno della scena, indice dell’antichità troiana e pagana del sangue ducale, conduce il rilievo alla complessa contemporaneità di Alfonso I, impegnato ad affrontare non solo gli attacchi ideologici del pontefice, ma anche la guerra sanguinosa contro la Serenissima, alleata dello Stato della Chiesa a partire dal 1510. La scena sublima attraverso il mito la guerra contro la lega di Cambrai e di conseguenza l’immagine stessa del duca che, ricorrendo all’esempio letterario di Enea, ostentava grandi abilità militari, che gli avrebbero permesso di difendere i confini ferraresi.

Fig. 3, Dosso Dossi, Didone, 1518-20, Roma, Galleria Doria Pamphilj, Roma
La moresca Didone di Dosso Dossi (Fig. 3), oggi alla galleria Doria-Pamphilj di Roma, nonostante le differenti ipotesi di identificazione con eroine ariostesche avanzate negli anni[9], può essere letta come un altro capolavoro della propaganda allusiva estense: la figura stessa della donna celebrerebbe uno dei perni dell’immagine politica alfonsina.
La drammatica torsione del busto, memore degli esemplari di derivazione raffaellesca, come la Didone di Marcantonio Raimondi (1510, Musei Civici, Pavia), e il volto fortemente patetico estremizzano il senso di abbandono della regina, che espone allo sguardo pietoso dell’osservatore una borgognotta, recante sul coppo crestato gli stessi caratteri pseudo-cufici del diadema bronzeo della donna, riconducibili a manufatti di area araba commercializzati all’epoca in Italia[10]. Nel caso dell’identificazione del personaggio con Didone, l’elmo – di fattura moderna e non leggibile come attributo della regina – costituirebbe l’indizio del passaggio di Enea e dunque, ancora un volta, della sua assenza che permea la composizione, divenendone attrice primaria. È il condottiero troiano, infatti, origine della sofferenza della regina e cagione del suo suicidio: «Allora infelice, atterrita dal fato, Didone/ invoca la morte: veder la volta del cielo l’angoscia»[11].
Il motivo di tale iconografia consisterebbe nell’evocazione per contrasto della scelta ideologica di Enea di lasciare Cartagine: l’abbandono di Didone, dettato dalla volontà divina a cui l’eroe con pietas si sottomette, avviene in nome della necessaria fondazione di quella progenie che avrebbe dato vita a Roma, ideale assoluto di giustizia a cui ogni individualismo soccombe.
La Didone celebra dunque Enea in qualità di capostipite di una dinastia gloriosa, uno dei motivi intorno al quale andava sviluppandosi la propaganda politica di Alfonso I, intenzionato a proporre un’immagine di sé di principe non solo saggio e illuminato, ma anche generoso nella prole. Ben sapeva, infatti, che la stabilità del potere insisteva sulla procreazione di una stirpe legittima che avrebbe innanzitutto preservato il dominio estense dalle persistenti minacce romano-veneziane e successivamente proiettato Ferrara verso una nuova età aurea secondo il percorso tracciato dal patriarca stesso.
La fatalità della dinastia ducale, l’unica in grado di porre al di sopra degli interessi personali il Bene comune, è un altro aspetto su cui la propaganda estense concentrò la propria azione ideologica, come appare evidente nella Venere e Marte davanti alle porte di Troia del Garofalo (Fig. 4), ora alla Gemäldegalerie di Dresda[12]. Si tratta di una rara rappresentazione del V libro dell’Iliade, testo non molto popolare a Ferrara, ma la cui scelta da parte della famiglia ducale, insieme ai numerosi riferimenti antiquari, ostenta una profonda, a tratti parossistica, erudizione[13].
- Fig. 4, Garofalo, Venere e Marte davanti alle porte di Troia, 1520-25, Dresda, Gemäldegalerie
L’idillio paesaggistico, a cui corrisponde quello amoroso, allegorizzato dall’erote che fugge verso destra, tra Venere e Marte, ritratto come un chevalier di Borgogna, è sconvolto dalla battaglia scatenatasi in lontananza sotto le mura di Troia, vero fulcro narrativo della scena, dove rinvenire il legame della composizione con la politica culturale estense. La dea dell’Amore, dal volto sereno e sorridente, è ritratta mentre chiede soccorso al fratello, nonché amante, affinché le conceda i suoi cavalli, raffigurati mentre pascolano in lontananza nel mezzo della radura soleggiata, per far ritorno sull’Olimpo dopo essere stata ferita dall’empio Diomede durante il sanguinoso scontro sotto le mura di Troia, come ricorda lo stesso condottiero nell’XI libro dell’Eneide.
La piacevolezza della scena principale nasconde il dramma dell’intero episodio, base della propaganda ducale; infatti l’intervento di Venere fu dettato dalla necessità di salvare la vita al figlio Enea, aggredito dal guerriero acheo: «E là sarebbe così perito Enea signore dei guerrieri, se prontamente non se ne accorgeva la figlia di Zeus, Afrodite […] aveva paura che qualcuno dei Danai dai celeri puledri gli scagliasse al petto un’arma di bronzo e gli togliesse la vita»[14].
Ancora una volta è possibile ipotizzare che il protagonista della tela del Garofalo sia il troiano Enea, a cui si allude esplicitamente attraverso la ferita ostentata dalla madre Venere; il V libro omerico potrebbe, dunque, essere stato interpretato dalla corte estense in linea con la politica dinastica che i duchi conducevano da anni, incentrata sulla celebrazione della loro discendenza dall’eroe virgiliano, quindi della natura fatale del loro potere.
La particolare predilezione che le divinità celesti mostrano nei confronti del condottiero iliaco è dovuta alla sua natura semidivina e alla sua profonda devozione nei loro confronti. Ciò costituì l’aspetto più conveniente agli occhi della corte di Alfonso I: la pietas era una delle virtù deputate all’esercizio governativo e, sublimando la propria immagine pubblica attraverso quella letteraria dell’eroe, anche il duca ne appariva connotato. Come Enea, anche il signore ferrarese, a dispetto delle scomuniche papali subite negli anni, era amato e protetto dal Cielo per la sua natura devota che, dunque, legittimava il suo ruolo di guida politica e finanche spirituale del popolo ferrarese. Il governo estense celebrava se stesso nella tela garofaliana come manifestazione della volontà divina, a dispetto del modello papale, ormai lontano da un ideale di perfezione morale e spirituale.
Tali opere sono testimonianza dell’incolmabile frattura con la Chiesa, accusata di attentare alla libertà del territorio estense, la cui identità politico-culturale coincideva con l’immagine del duca e di conseguenza con quella di Enea, colui che difese e conservò gli dei e le tradizioni della patria: motivo per cui l’eroe troiano costituì – spesso anche in absentia – l’emblema dell’indipendenza politica e culturale di Ferrara[15].
Note
[1] G. Venturi, Cultura e società estensi da Niccolò III ad Alfonso I, in Gli Este a Ferrara, vol. II, “Una corte nel Rinascimento”, a cura di J. Bentini, (Ferrara, Castello di Ferrara, 14 marzo – 13 giugno 2004), Cinisello Balsamo (Mi) 2004, pp. 31-41; V. Farinella, Alfonso I d’Este: le immagini e il potere: da Ercole de’ Roberti a Michelangelo, Milano 2014.
[2] T. V. Strozzi, Borsias, disponibile sul sito www.poetiditalia.it/public/testo/testo?codice=STROZZI|bors|001; M. M. Boiardo, Carmina de laudibus Estensium, in A. Solerti (a cura di), Le poesie volgari e latine di Matteo Maria Boiardo, Bologna 1894, pp. 451-470; M.M. Boiardo, L’inamoramento de Orlando, in Opere, a cura di A. Tissoni Benvenuti e C. Montagnani, Milano-Napoli 1999, 2 voll.; L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di C. Segre, Milano 2010. Per un’analisi chiara e dettagliata del fenomeno: H. Honnacker, L’origine troiana della casa d’Este fornita nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, nelle edizioni del 1516 e del 1521: una genealogia fra leggenda e storia, “Schifanoia”, 17-18, 1997, pp. 125-133.
[3] M. Natale, G. Sassu, In mostra e G. Sassu, Verso e oltre Schifanoia, entrambi in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, cat. della mostra a cura di M. Natale (Ferrara, Palazzo dei Diamanti – Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 – 6 gennaio 2008), Ferrara 2007, rispettivamente pp. 37-59 e 415-425.
[4] L.N. Cittadella, Notizie relative a Ferrara per la maggior parte inedite, vol. I, Ferrara 1864, pp. 489-490; A. Venturi, Le arti minori in Ferrara alla fine del sec. XV. Gli armaiuoli, “L’arte”, 12, 1909, pp. 147-148; C. Rosenberg, Immagini di Borso e aspetti della Ferrara del tempo nella fascia superiore del Salone dei Mesi, in R. Varese (a cura di), Atlante di Schifanoia, Modena 1989, pp. 81-84.
[5] V. Farinella, Alfonso I d’Este, op. cit.
[6] G. Paduano, La nascita dell’eroe. Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale, Milano 2008, p. 82.
[7] V. Farinella, Vulcano e la sua officina, a Ferrara, negli anni di Alfonso I d’Este, in G. Venturi e F. Cappelletti (a cura di), Gli dei a corte, Letteratura e immagini nella Ferrara estense, Firenze 2009, pp. 135-177.
[8] K. Mazzucco, Coordinate di metodo. Un esempio: Aby Warburg, in M. Centanni, L’originale assente. Introduzione allo studio della tradizione classica, Milano 2005, pp. 139-154.
[9] G. Morelli, Della pittura italiana; studii storico critici di Giovanni Morelli (Ivan Lermollief). Le gallerie Borghese e Doria Pamphili in Roma, Milano 1897; L. Venturi, Giorgione e il giorgionismo, Milano 1913; E. Langmuir, Niccolò dell’Abate’s frescoes from Orlando Furioso, “Storia dell’arte”, 42, 1981, pp. 139-150; P. Morel, Mélissa. Magie, astres et démons dans l’art italien de la Renaissance, Parigi 2008; V. Farinella, Alfonso I d’Este, op. cit.
[10] F. Cardini, Firenze e l’Oriente del Quattrocento, in G. Lazzi e G. Wolf (a cura di), La stella e la porpora. Il corteo di Benozzo e l’enigma del Virgilio Riccardiano, Firenze 2009, pp. 73-117.
[11] Publio Virgilio Marone, Eneide, traduzione e cura di R. Calzecchi Onesti, vol. IV, Torino 2014, p. 145 (vv. 450-451).
[12] J. Winkler, La vendita di Dresda, Modena 1989.
[13] A. Pattanaro, Garofalo e la corte negli anni di Alfonso I, in A. Ballarin (a cura di), Il camerino delle pitture di Alfonso I, vol. VI: Dosso Dossi e la pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I (a cura di A. Pattanaro e V. Romani), Cittadella (Pd) 2005, pp. 77-101; V. Farinella, Sull’uso politico di Omero (e Virgilio) alla corte di Pandolfo Petrucci, in C. Capodieci e P. Ford (a cura di), Homère à la Renassaince. Mythe et transfigurations, Roma 2011, pp. 301-321.
[14] Omero, Iliade, a cura di G. Tonna e F. Codino, Milano 1982, pp. 83-84.
[15] L. Finocchi Ghersi, Dosso Dossi, Giovanni Bellini e Tiziano nei “camerini” di Alfonso I, “Saggi e memorie di storia dell’arte”, 27, 2005 (atti del convegno Le raccolte d’arte della Fondazione Giorgio Cini. Nuovi studi, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 3 – 4 dicembre 2003), pp. 215-221.
Pubblicato su “MuseoinVita” | 3-4 | giugno-dicembre 2016