Cesare Gennari pittore di “sommo studio”

La maturità, le influenze artistiche e un nuovo quadro con l’Ipparchia di Maronea

Pubblicato su “MuseoinVita” | 9-10 | 2019


«Benché alcuno abbia lasciato scritto che Cesare Gennari nacque in Bologna, pure è certo esser egli nato in Cento, trovandosi ne’ libri di quella cattedrale di San Biagio segnato il di lui battesimo sotto li 12. dicembre 1637: figlio anch’esso di Ercole Genari, e di Lucia Barbieri, portò dalla natura una somma inclinazione, ed un’indole adatta alla bell’arte del dipingere, e dopo i primi rudimenti delle lettere, fu dal Guercino, che gli era zio, preso in sua scuola in compagnia del fratello Benedetto, e con pari attenzione ed amore istruito»[1].

È con queste parole che, nel 1808, Jacopo Alessandro Calvi introduceva il breve profilo di Cesare Gennari che stava riscrivendo alla luce del ritrovato atto battesimale del pittore tra le carte della Collegiata di San Biagio di Cento. Indirizzato alla professione artistica e «posto al disegno»[2] dal suo illustre zio, Cesare dimostrò notevoli capacità grafiche e pittoriche e, in particolare, una quanto mai sorprendente abilità nel riprodurre la maniera del Guercino. Proprio in virtù di questo talento, gli storiografi tra Sei e Settecento celebrarono l’artista quasi esclusivamente come copista e imitatore del maestro, poiché «i suoi quadri si prendono e non rade volte, opere del Guercino»[3], essendo eseguiti con «sommo studio, e sullo stile del zio»[4].

Una chiara adesione al linguaggio del Guercino

In effetti, nei suoi primi lavori autonomi Cesare esibiva un linguaggio di stretta osservanza guerciniana, come, ad esempio, quella che attualmente si considera la sua prima commissione pubblica documentata, la pala con Santa Maria Maddalena penitente (fig. 1).

Fig. 1 – Cesare Gennari, Santa Maria Maddalena penitente, 1662, Cento, Pinacoteca Civica

Il quadro fu consegnato nel 1662 alle monache agostiniane di Cento per l’altare maggiore dell’appena edificata chiesa della Maddalena, annessa al loro convento, e lì rimase fino al 1796, quando fu requisito dalle truppe napoleoniche e portato in Francia per essere pulito ed esposto nel 1801 nel Musée Napoleon[5]. Rientrata in Italia, la pala fu ripresa ad acquerello da Giuseppe Maria Figatelli che reintegrò la pittura nei capelli e in parte del manto e, nel 1816, fu collocata nella chiesa del Rosario di Cento. Nel 1839 fu trasferita nella Pinacoteca Civica di Cento e, nello stesso anno, Alessandro Candi ne confezionò una copia da esporre nella chiesa della Maddalena, originaria collocazione della tela[6].

Fig. 2 - Guercino, Maddalena in adorazione del Crocifisso, 1654, collezione privata

Fig. 2 – Guercino, Maddalena in adorazione del Crocifisso, 1654, collezione privata

Secondo una pratica di bottega, Cesare reimpiega figurazioni messe a punto dal maestro, adattando in una composizione più ampia elementi della Maddalena in adorazione del Crocifisso del Guercino (fig. 2), riemersa nel 2016 a New York ad un’asta di Sotheby’s[7].

La pala centese non costituisce l’unico esempio giovanile in cui Cesare recupera figure del repertorio guerciniano per adattarle a composizioni differenti.

Simili operazioni, infatti, sono ben documentate, ad esempio, dalle quattro tele licenziate tra il 1661 e il 1665 per i Gonzaga di Novellara (l’Allegoria della Carità e l’Allegoria della Pace, entrambe alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, e la Morte di Adone e la Nascita di Adone, già a Dresda e andate perdute durante il Secondo Conflitto Mondiale) e, forse in misura minore, nella pala con I Santi Alberto e Andrea Corsini e la Beata Maria Maddalena de’ Pazzi, eseguita nel 1663 per l’altare della famiglia Renghieri nella chiesa di San Martino Maggiore a Bologna[8]. Se l’aderenza agli stilemi del Guercino è così chiara nelle opere autonome, le copie che l’artista trasse dallo zio risultano talmente fedeli agli originali da porre ancora oggi significative difficoltà di attribuzione.

La bravura di entrambi i fratelli Gennari nel riprodurre la maniera del maestro, si dimostrò molto preziosa all’indomani della morte del Guercino, soprattutto per il recupero di quelle sue tele che si deterioravano di anno in anno.  Il 23 luglio 1668 Benedetto inviava una lettera al pittore Francesco Sisti che richiedeva l’intervento dei fratelli Gennari per il restauro della pala del Guercino con San Rocco e la Madonna della peste che si vedeva «quotidianamente andar peggiorando»[9]. La pellicola pittorica così fragile rendeva impossibile il trasporto del dipinto da Ferrara a Bologna e, probabilmente, viste le ingenti spese di un restauro, i Gennari proposero di realizzarne una copia (oggi nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara) al prezzo scontato di cinquanta doppie, da cui, però, erano esclusi i costi della tela e del lapislazzulo[10]. I due artisti assicurarono, poi, ai committenti che non avrebbero fatto ricorso a una tela già preparata con prodotti di scarsa qualità, ma che avrebbero applicato loro stessi una buona imprimitura sul supporto che a quel punto avrebbe retto finché «le tele si marzeranno»[11], offrendo uno spunto di riflessione circa l’attenzione che il maestro e i nipoti riservavano alle tecniche di preparazione delle tele.

La bottega bolognese di Cesare e Benedetto

Le copie di originali del Guercino costituivano un’importante fonte di introiti per la bottega ed è possibile che lo stesso caposcuola incentivasse i suoi collaboratori a replicare sue opere particolarmente celebri o amate dai collezionisti locali, purché queste non fossero vendute come autografi che avrebbero leso la sua reputazione[12]. Allo stesso tempo, questa pratica rappresentava, al pari del disegno, un esercizio didattico funzionale all’apprendimento dei rudimenti tecnici della pittura.

All’indomani della morte del Guercino, dovette crescere la domanda di copie, desiderate, soprattutto, da quei collezionisti non disposti all’acquisto di un più costoso originale, il cui prezzo poteva salire ulteriormente come nel caso dei rarissimi quadri della prima maniera. Lo stesso Guercino, infatti, si rammaricò con alcuni dei suoi più affezionati clienti, per non avergli potuto reperire dipinti della sua prima maniera[13]. D’altro canto, sappiamo che l’esecuzione di riproduzioni dal Guercino fu una pratica che interessò gran parte della carriera dei Gennari. In particolare, dovettero essere molte le copie di originali che Cesare approntò anche durante la maturità; tra cui è opportuno citare la Sibilla Cimmeria del Credito Emiliano di Reggio Emilia, a lungo ritenuta del Guercino, fino alla comparsa, nel 2002, dell’esemplare della Galerie Canesso di Parigi, in cui si è riconosciuta la versione autografa che questi confezionò tra il 1638 e il 1639 per la famiglia Ratta di Bologna[14]. Uno studio di Tommaso Mozzati ha poi fatto chiarezza sulla versione di Reggio Emilia, da identificare in quella «Copia d’altra Sibilla del Guercino» di mano di Cesare Gennari che figura nell’inventario delle pitture presenti in Casa Ratta nel 1707, riemerso nell’Archivio di Stato di Bologna[15]. La Sibilla del Credito Emiliano è la prova che Cesare continuò a riprodurre opere del Guercino – per chiari fini commerciali – anche durante gli ultimi anni della sua vita, poiché la tela dovrebbe datarsi tra il 1683 e il 1688, in quanto non figura nell’inventario dei beni di Ludovico Ratta del 1683, e compare per la prima volta nel 1707[16].

Benché Cesare si dimostri un copista abile e un pittore capace, Giampietro Zanotti lo considera di gran lunga inferiore ai suoi colleghi accademici «che teneano, non solamente il primo di Bologna, ma d’Italia, e d’Europa», tra i quali anche il fratello Benedetto[17]. Tuttavia, la posizione filo-accademica di Zanotti non sempre gli consentiva di esprimere giudizi obiettivi sugli artisti non affiliati all’Accademia Clementina, alla quale Cesare non prese parte a causa della morte prematura. Più lusinghiero fu il giudizio di Carlo Cesare Malvasia che lo definì come l’allievo al quale Guercino volle «trasfondere la propria virtù, per farla ereditaria nel suo sangue»[18], tenendo conto proprio di queste abilità di mimesi linguistica che il pittore perfezionò studiando da vicino le opere del maestro.

Probabilmente fu la brillante carriera che si costruì il fratello alla corte degli Stuart a mettere in ombra i suoi successi professionali che, dopo la partenza di Benedetto per Parigi nel 1672, assunse il controllo della bottega e istituì una propria scuola frequentata da un buon numero di allievi[19], organizzando il lavoro e la didattica sull’impronta dello zio. Infatti, sembra che ogni studente della bottega di Cesare fosse specializzato in una pratica artistica precisa, così come era avvenuto nell’atelier guerciniano, dove ogni collaboratore praticava un genere artistico stabilito[20]. Così sappiamo che, tra gli apprendisti di Cesare, Anna Teresa Messieri fu pittrice di figura e copista di quadri del maestro, Lorenzo Bergonzoni ritrattista e pastellista, Giuseppe Maria Figatelli riproduceva a penna e ad acquerello i disegni del Guercino mentre Giovanni Battista Digerini ne imitava lo stile in pittura[21]. Dalle note del Crespi si può supporre che il maestro indirizzasse alcuni allievi al perfezionamento di una determinata tecnica, come nel caso di Bergonzoni, specialista del pastello, e Figatelli dell’acquerello.

Sono comunque poche le notizie sul profilo e la bottega di Cesare Gennari ricavabili dagli storiografi che si mostrarono più interessati al poliedrico Benedetto.

Sull’esempio dei padri del naturalismo seicentesco

La scarsa fortuna del minore dei Gennari potrebbe attribuirsi anche alle difficoltà incontrate dalla critica, antica e moderna, nell’inquadrare gli sviluppi della sua carriera in un percorso artistico lineare, viste le differenti fonti figurative che il pittore frequentò. Fin dai primi anni di tirocinio, infatti, Cesare dimostrò di essere estremamente ricettivo e abile nel rielaborare in maniera organica spunti linguistici differenti e sempre nuovi. Nel 1657 firmava il Ritratto di Teresa Dondini Spada (Modena, collezione privata) in cui i passaggi di naturalismo guerciniano delle tinte e del lume si sposano con brani di descrittivismo d’oltralpe dei pizzi, dei fiocchi, dei monili e del ventaglio, su cui l’artista indugia, non per un’esibizione virtuosistica, ma – come nota Daniele Benati – per acuire la resa realistica degli oggetti [22]. Fedele interprete della tradizione bolognese, Cesare modulò il proprio linguaggio sull’esempio dei padri del naturalismo seicentesco perseguendo gli ideali carracceschi della poetica “della realtà” e della pittura del vero, recuperando, per questo fine, stilemi e prototipi di suoi colleghi, anche differenti a seconda del genere praticato. Nel campo della ritrattistica, ad esempio, guardò non solo a Pier Francesco Cittadini, grande esperto del genere nonché formidabile naturamortista, ma anche al fratello Benedetto che, specializzatosi nel ritratto durante gli anni giovanili[23], effigiò – prima della sua partenza per la Francia – alcuni degli aristocratici più in vista tra Bologna, Ferrara e Mantova. Forte di questi influssi, Cesare confezionò una serie di buone effigi “di stato”, licenziando il Ritratto di Dorotea Fiorenza Saccenti dell’Opera Pia dei Poveri Vergognosi nei primi anni del settimo decennio[24], il vivido Ritratto di Alfonso II Gonzaga di Novellara alle Gallerie Estensi di Modena, pronto nel Natale del 1666[25], il Ritratto di Laura Sibilla Garzoni della Pinacoteca Civica di Budrio, firmato e datato 1676[26] e il più tardo Ritratto di gentildonna con un bambino (Modena, Banca Popolare dell’Emilia-Romagna)[27].

Fig. 3 - Cesare Gennari, Cristo deriso, post 1668, già Bologna, Gallerie Gilberto Algranti, vendita 18 marzo 1989, n. 82

Fig. 3 – Cesare Gennari, Cristo deriso, post 1668, già Bologna, Gallerie Gilberto Algranti, vendita 18 marzo 1989, n. 82

Il 24 novembre 1668 Marcello Malpighi, corrispondente a Bologna di don Antonio Ruffo di Bagnara, informava il principe messinese di alcuni fatti avvenuti in città e, a tal proposito, scriveva che «I Nepoti del già Sig: Gio: Fran:co se la passano al solito, e l’estate passato furono a Roma; altro, in questi paesi anche circonvicini, non si sente che habbi fama»[28]. Di questa breve parentesi romana non si hanno notizie, ma è possibile immaginare che Cesare abbia ammirato quei pittori che, influenzati dal tardo-caravaggismo di Mattia Preti e Jusepe de Ribera, tenevano ancora viva nell’Urbe la pittura naturalista di primo Seicento. Tracce di questo contatto si individuano nei dipinti che l’artista approntò poco dopo il suo rientro a Bologna come il Cristo deriso, già nelle Gallerie Algranti di Bologna (fig. 3)[29], e il capolavoro della prima maturità, l’Annunciazione (fig. 4) inviata nel 1669 a Villeneuve-les-Avignon per l’abside della chiesa annessa alla Charteuse du Val de Bénédiction[30].

Fig. 4 - Cesare Gennari, Annunciazione, 1669, Villeneuve-les-Avignon, Musée Pierre-de-Luxembourg /ref. © Villeneuve lez Avignon, Musée Pierre-de-Luxembourg / Maryan Daspet

Fig. 4 – Cesare Gennari, Annunciazione, 1669, Villeneuve-les-Avignon, Musée Pierre-de-Luxembourg /ref. © Villeneuve lez Avignon, Musée Pierre-de-Luxembourg / Maryan Daspet

Entrambe le tele chiariscono i debiti di Cesare verso la pittura romana contemporanea e, soprattutto, evidenziano la sua capacità di sintetizzare maniere e culture figurative diverse e di reinterpretarle in proposte linguistiche coerenti.

La maturità barocca di Cesare

Con l’Annunciazione – forse l’ultima delle tre tele per la Charteuse ad essere completata – Cesare inaugurò una nuova fase della sua carriera, in cui esibisce una maniera rinnovata da suggestioni più marcatamente barocche che gli derivarono in parte dal soggiorno romano e in parte dalla sua apertura verso le più moderne tendenze pittoriche felsinee. Il recupero di stilemi e prototipi figurativi dei colleghi non solo favorì, sul calare del settimo decennio del secolo, questo sviluppo linguistico, ma divenne una componente fondamentale di tutta la sua pratica artistica matura. È possibile, d’altronde, che molte delle soluzioni espressive da lui adottate fossero dettate da esigenze commerciali che condizionarono fortemente le sue scelte professionali tra gli anni Sessanta e Settanta, periodo particolarmente intenso dal punto di vista professionale, e decisamente felice per gli esiti artistici cui pervenne. È in questa manciata di anni che si collocano i quadri migliori portati a termine per importanti collezionisti, come l’Allegoria della Giustizia (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica) e la Maddalena in adorazione del crocifisso (Cento, Pinacoteca Civica), entrambi per la famiglia Tiazzi di Cento[31], l’ovale con Susanna e i vecchioni per i Ratta Garganelli di Bologna[32], l’Orfeo che suona la viola (fig. 5) per il senatore bolognese Annibale Ranuzzi[33], nella cui quadreria erano presenti altri due ovali di Cesare, registrati nell’inventario legale dei beni del 1698, trascritto nel 1870 da Giuseppe Campori[34].

Fig. 5 - Cesare Gennari, Orfeo che suona la viola, 1675-1676 ca., Cento, Cassa di Risparmio/ref. Laboratorio Diagnostico per i Beni Culturali, Dipartimento di Beni Culturali, Università di Bologna-Campus di Ravenna

Fig. 5 – Cesare Gennari, Orfeo che suona la viola, 1675-1676 ca., Cento, Cassa di Risparmio/ref. Laboratorio Diagnostico per i Beni Culturali, Dipartimento di Beni Culturali, Università di Bologna-Campus di Ravenna

Nel 1676 è documentato, poi, un piccolo rame eseguito da Cesare per la galleria messinese di don Antonio Ruffo di Bagnara, primo principe della Scaletta, uno dei più affezionati clienti del Guercino e appassionato collezionista che con i fratelli Gennari ebbe un costante scambio epistolare[35]. Il dipinto è registrato nel 1678 nell’inventario post mortem del principe come «Madonna col Bambino in braccio, il quale tiene una rosa nella mano dritta» in «ovato»[36]. Un’iconografia simile su un supporto in rame e prossima nelle dimensioni a quella citata nell’inventario messinese (circa 21 x 16 cm) è apparsa lo scorso decennio ad un’asta milanese di Finarte (fig. 6) con un’attribuzione convincente a Cesare Gennari [37]. Allo stato attuale degli studi, è possibile proporre come ipotesi l’identificazione della Madonna Ruffo con questa piccola opera già Cavallini Sgarbi e supporre che in origine presentasse una cornice rettangolare con apertura ovoidale.

Alla maniera di Elisabetta Sirani

Accanto ad artisti come Lorenzo Pasinelli e Domenico Maria Canuti, già riconosciuti dalla critica come modelli influenti nella crescita artistica di Cesare[38], è opportuno riflettere sull’ascendenza che invece esercitò la maniera di Elisabetta Sirani, a cui il pittore guardò anche per ragioni commerciali. Ancora giovane, la pittrice riuscì a imporsi sulla scena artistica lavorando per i collezionisti più in vista del tempo, consolidando la propria reputazione come maestra riconosciuta sia in Italia sia all’estero. Dotata di eccellente talento, tecnica svelta e sicura e di una forte personalità, la giovane appena ventenne, fu presentata da Bonaventura Bisi al cardinale Leopoldo de’ Medici come «putta molto valente […] che dipinge da homo con molta prontezza et invenzione»[39], riuscendo a garantirsi, precocemente, prestigiose commissioni per i principi fiorentini. Tra l’altro, la Sirani aveva sapientemente condotto una politica di presentazione alla corte medicea facendo recapitare i suoi disegni a Firenze, tramite Ferdinando Cospi e Annibale Ranuzzi, consulenti artistici dei Granduchi di Toscana[40]. L’apice fu raggiunto nel 1664, quando la pittrice consegnò al cardinale de’ Medici La Giustizia, la Prudenza e la Carità, oggi conservata presso il Comune di Vignola[41] e la sua fama crebbe a tal punto che, nel 1665, ricevette nel suo atelier la duchessa di Brunswick, giunta a Bologna per vederla dipingere[42].

La morte improvvisa e prematura della “pittrice eroina” lasciò un vuoto nel panorama artistico italiano. Ciò, tuttavia, permise ad altri di presentarsi con maggiore facilità ad una delle più importanti casate italiane e ottenere nuove possibilità di affermazione sul mercato contemporaneo. A tal proposito, uno studio di Elena Fumagalli ci informa in merito alle preferenze di Casa Medici per la pittura veneta ed emiliana del XVII secolo, e di come Leopoldo, Carlo e Ferdinando de’ Medici si dedicarono alla ricerca di pezzi di scuola bolognese, tra cui originali del Guercino[43]. Già nel 1648 i Gennari, tramite Cospi, inviarono alcuni disegni a Firenze[44], come omaggi per la corte medicea, secondo una pratica condivisa da molti artisti del tempo. Tuttavia, nonostante questi fogli e un David con la testa di Golia, forse di Benedetto inviato nel 1660[45], sembra che i fratelli non ottennero particolari commissioni dai Granduchi, che per i lavori più prestigiosi si rivolsero ad altri interlocutori, come la Sirani. Solo un decennio più tardi e dopo la scomparsa di Elisabetta, Cesare riallacciò i rapporti con la corte fiorentina, grazie alla mediazione di Annibale Ranuzzi, che nel gennaio del 1674 fece recapitare a Leopoldo de’ Medici un disegno con due teste a sanguigna del Gennari[46], che nell’Inventario del 1784 è registrato come «Due mezze figure, cioè un giovane ed un vecchio simile»[47]. Otto mesi più tardi il cardinale de’ Medici ricevette la Sacra Famiglia di Cesare oggi a Palazzo Pitti[48], per la quale il pittore preparò uno studio oggi a Lipsia[49], tra i suoi pochi sketches grafici noti. Il registro pittorico della tela fiorentina sembra testimoniare i migliori sviluppi in chiave barocca della maturità artistica del più giovane dei Gennari. Tocchi di colore rapidi, ma stesi con perizia, e pennellate grasse definiscono una materia morbida, compatta nelle zone in luce, più vibrante in quelle in ombra. Giustamente, Nora Clerici Bagozzi la considerava «la più avvincente fra le opere a noi note dell’artista», in virtù della pittura così libera e sapientemente studiata sugli stilemi di Guercino e Flaminio Torri[50], e su quelli di Elisabetta Sirani. Questi sviluppi, che risalgono all’Annunciazione spedita in Francia, paiono debitori delle scene devozionali licenziate in gran numero dalla pittrice nel corso del settimo decennio del secolo, quali, ad esempio, la Madonna della pera della Pinacoteca Comunale di Faenza, la Madonna con Bambino e san Giovannino dei Musei Civici di Pesaro (fig. 7) e la Madonna con Bambino del National Museum of Women in the Arts di Washington. Sia nel quadro fiorentino, sia nel piccolo rame Cavallini-Sgarbi (forse già Ruffo), Cesare dà prova di saper rileggere in chiave personale il linguaggio della collega, dalla quale recupera anche il caratteristico profilo femminile della Vergine, esile ed elegante col naso un po’ appuntito. L’influenza della Sirani non si esaurisce, tuttavia, in alcune suggestioni estetiche e stilistiche, poiché in scene come questa, Gennari indugia sulla descrizione dei rapporti, sinceri e quotidianamente intimistici, tra i soggetti, mostrando un’attenzione particolare per il naturalistico gesto del Bambino che, nella tela Pitti, si piega sul petto della madre e si abbandona a un sonno profondo, mentre lei lo stringe con vivo calore. Questa intonazione dolcissima e attenta agli affetti, che pure fu tipica della prima maniera del Guercino, trova un’efficace fonte d’ispirazione proprio nella pittura della Sirani, massimo esempio di quella “teologia in lingua materna” che le riconosceva Vera Fortunati[51]. Non sarebbe un caso, quindi, che, scomparsa l’artista, Cesare, abile copista ed emulatore, ne abbia rielaborato la maniera in una tela destinata agli stessi principi che tanto apprezzarono l’arte della celebre maestra bolognese.

Pur conservando un linguaggio di base più schietto, popolare e sincero, declinato su modelli carracceschi e guerciniani, Cesare, a partire dalla fine degli anni Sessanta, seguì una poetica più raffinata, cortese ed elegante ravvisabile nel modo di concepire, definire e atteggiare le figure. Una poetica modellata sulle leziosità di Lorenzo Pasinelli, sui cangiantismi di Domenico Maria Canuti[52] e sull’eleganza gentile della Sirani, cioè sull’arte di quei maestri che aggiornarono la pittura bolognese nella seconda metà del Seicento. Tra l’altro bisogna ricordare che Cesare godeva dell’appoggio e della protezione di Ferdinando Cospi e del conte Annibale Ranuzzi, ovvero gli agenti medicei che aiutarono la Sirani nei suoi rapporti con la corte granducale. In particolare, Ranuzzi fu collezionista e ammiratore sia della Sirani sia di Gennari, e potrebbe essere stato proprio lui a fare da intermediario per assicurare a Cesare la commissione della Sacra Famiglia oggi alla Galleria Palatina.

Un’inedita iconografia di Ipparchia di Maronea, filosofa cinica

Assunta la completa gestione della bottega, dopo la partenza del fratello Benedetto per Parigi nel 1672, Cesare si mostra pronto a rispondere alle esigenze di un mercato variegato e complesso in un contesto professionale alquanto competitivo. Il suo linguaggio si conforma di volta in volta ai gusti e alle necessità della sua committenza e, negli anni settanta, si aggiorna in direzione di una pittura più colta e raffinata. Pertanto, è possibile leggere anche particolari necessità commerciali nelle soluzioni che egli ricavò dai colleghi e che gli aprirono le porte alle raccolte di importanti e raffinati mecenati, i cui interessi collezionistici dovettero dirottarsi, a metà del XVII secolo, verso stilemi barocchi più freschi e aggiornati.

Tra le opere che documentano gli sviluppi artistici di Cesare nell’arco dell’ottavo decennio, di grande interesse è la “Sibilla” riemersa il 27 ottobre 2011 ad un’asta di Sotheby’s e riconosciutagli da Emilio Negro[53] (fig. 8).

Fig. 8 - Cesare Gennari, Ipparchia la cinica come poetessa, ante 1678., già Londra, Sotheby’s, vendita 27 ottobre 2011

Fig. 8 – Cesare Gennari, Ipparchia la cinica come poetessa, ante 1678., già Londra, Sotheby’s, vendita 27 ottobre 2011

Fig. 9 - Elisabetta Sirani, Autoritratto come Maga Circe, 1657, collezione privata

Fig. 9 – Elisabetta Sirani, Autoritratto come Maga Circe, 1657, collezione privata

Il dipinto costituisce un’importante aggiunta al catalogo di Cesare in quanto testimonianza ulteriore dell’influenza esercitata su di lui dalla Sirani e da Pasinelli. È alle loro composizioni che dovette ispirarsi il pittore per la messa a punto della figura, il cui atteggiamento sembra citare la posa elegantissima che Elisabetta esibisce nel suo Autoritratto come Maga Circe (fig. 9), riscoperto da Adelina Modesti[54].

Se, a livello stilistico, è possibile accettare la paternità di Cesare, da un punto di vista iconografico sorgono alcuni problemi interpretativi. Sul cartiglio che la giovane srotola con delicatezza, sono apposte due righe in lettere greche (fig. 10), trascritte e analizzate in occasione di questo studio:

⟧ΠΛΟΥΤΑΣΟΦΟΙ ΠΟΡΡΩ. ΓΕΓΑΥΙΑ ΙΠΠΑΡΧΑ ΚΡΑΤΗΤΙ

⟧ΜΕΙΑ ΓΑΜΟΥΣΑ ΣΟΦΩ ΠΑΡΘΕΝΟΣ ΕΥΦΡΟΝΕΕΙ

Fig. 10 - Cesare Gennari, Ipparchia la cinica come poetessa, ante 1678., già Londra, Sotheby’s, vendita 27 ottobre 2011, particolare del cartiglio particolare del cartiglio

Fig. 10 – Cesare Gennari, Ipparchia la cinica come poetessa, ante 1678., già Londra, Sotheby’s, vendita 27 ottobre 2011, particolare del cartiglio particolare del cartiglio

Il testo greco presenta errori lessicali che lo rendono privo di senso e, pertanto, intraducibile. Una ulteriore complicazione sta nel fatto che il lato sinistro del cartiglio parzialmente arrotolato nasconde parte delle parole all’inizio di ciascun verso[55]. Nonostante le difficoltà di lettura il cartiglio fa riferimento a una donna di nome ΙΠΠΑΡΧΑ come «ΚΡΑΤΗΤΙ […] ΓΑΜΟΥΣΑ», cioè sposa di Cratete. Pertanto, il soggetto del dipinto è da identificare, non con una Sibilla, ma con Ipparchia di Maronea, filosofa cinica, originaria della Tracia e sposa del più celebre Cratete di Tebe il cinico, la cui vita è narrata da Diogene Laerzio. D’altronde, bisogna notare che l’abbigliamento orientale alla turca, che in età moderna caratterizzava le Sibille e le maghe del mondo greco e del vicino Oriente, veniva spesso riutilizzato per intellettuali, poetesse e pensatrici della Grecia antica. Diogene racconta che la bellissima Ipparchia, di nobili natali, si innamorò del pensiero filosofico di Cratete di Tebe, tanto da volerlo prendere in sposo ed essere sua seguace[56]. Il vecchio filosofo, allora, si denudò per mostrarle quali fossero le magre condizioni e le scelte di vita ostili imposte dal suo pensiero cui sarebbe andata incontro anche la giovane che, assolutamente convinta, si spogliò di ogni bene per seguire gli insegnamenti del marito[57]. Come emerge da un recente studio di Annalisa Paradiso, l’episodio del matrimonio col filosofo tebano rappresenta uno dei due motivi biografici su cui Diogene Laerzio aveva costruito il profilo di Ipparchia che riscosse una grande fortuna nella cultura letteraria successiva divenendo emblema – e quindi attributo – della filosofa di Maronea[58].

L’altro momento topico della vita di Ipparchia è rappresentato dal suo confronto con Teodoro l’Ateo, riportato nella raccolta delle Vite dei filosofi di Diogene. Ad un banchetto Ipparchia si trovò a confutare il suo avversario con un falso sillogismo a cui questi non seppe ribattere, se non provando a spogliare la filosofa del suo abito. Ella però non ebbe alcun tipo di reazione, suscitando scandalo tra i presenti[59]. In questo modo, come chiarisce Paradiso, Ipparchia affermava la propria condizione di donna colta e, quindi, moralmente virile, che aveva preferito l’istruzione alle consuete occupazioni femminili[60]. Sebbene l’impostazione della figura dipinta da Cesare recuperi, come si diceva poc’anzi, l’iconografia canonica delle Sibille, è pur vero che il dettaglio della camiciola sbottonata che scopre le nudità del seno codifica bene quella superiore e virile indifferenza che le riconosceva Laerzio nella narrazione di questo secondo emblematico episodio della vita e del pensiero di Ipparchia.

Riflettendo sulle possibili congruenze coi testi antichi e sulle origini di questo brano, i versi presenti sul dipinto nonostante la brevità, la parzialità e l’inesattezza (verosimilmente dovuta alla mancanza di conoscenza della lingua greca da parte del pittore o di chi ne ha redatto l’iconografia), consentono di trarre qualche interessante considerazione. Si può notare, infatti, come il testo non possa essere ricondotto direttamente a nessuna delle fonti antiche che ci danno testimonianza di Ipparchia. È verosimile, dunque, che la fonte testuale apposta sul cartiglio da Cesare fosse uno scritto vergato appositamente per la realizzazione del dipinto, forse dallo stesso committente dell’opera o da un umanista a lui vicino»[61]. I due righi apposti sul piccolo rotolo non sono dunque la citazione puntuale di un testo greco, bensì un recupero del senso generale della storia e della figura della filosofa, conosciuta, nel Seicento, attraverso le traduzioni – più o meno fedeli – da Diogene Laerzio. Il brano, quindi, sarebbe stato steso, verosimilmente, ex novo in lingua greca da un erudito che ideò l’iconografia, il quale, non avendo forse accesso al passo originale di Diogene, approntò una sua traduzione in greco antico delle fonti seicentesche. È possibile avanzare tale ipotesi considerando la scarsa fortuna che ebbe la figura di Ipparchia nel panorama culturale europeo d’età moderna, soprattutto se rapportata alla diffusione che, invece, conobbero altri filosofi antichi, come Eraclito, Pitagora e Demostene – molto frequentati dai pittori italiani del Seicento[62] – oppure di altri esponenti della scuola cinica[63]. Da qui poteva nascere l’esigenza di studiare e mettere a punto un’iconografia nuova con pochissime basi d’appoggio letterarie e, ancor meno, figurative che indussero alla redazione di fantasia di quel particolare frammento greco apposto sul cartiglio. Per giunta, sempre Paradiso, sottolinea che il laerziano profilo di Ipparchia riscosse una maggiore fortuna alla fine del XVII secolo, perlopiù in area francese, dove nel 1674 la maronita compariva in una breve nota de Le Grand Dictionnaire historique di Louis Moréri[64]. Nel 1676 cade invece il poemetto di Pierre Petit dedicato agli amori di Cratete e Ipparchia e successivamente si colloca la voce enciclopedica della filosofa inserita da Pierre Bayle nel suo Dictionnaire historique et critique, considerata «la più ampia dell’epoca moderna»[65]. Nonostante i contributi più interessanti provengano da Parigi, anche in Italia furono veicolati, già dai primi decenni del XVII secolo, riedizioni, traduzioni e commenti delle Vite dei filosofi del Laerzio, certamente conosciute dagli intellettuali del tempo.

In particolare, l’analisi condotta sul dipinto permette di avanzare alcune considerazioni sulla fonte letteraria a cui dovette ispirarsi Cesare Gennari. La donna poggia il gomito su un grande tomo dove è apposta un’iscrizione, parzialmente coperta dal calamaio, da leggersi come [TRAGED]IE HIPPARCHAE, chiaro riferimento ai componimenti tragici di stampo filosofico, ricordati da Laerzio, di cui fu autrice. Tra le trasposizioni italiane dell’opera di Diogene Laerzio in età moderna, va segnalata quella che Giovanni Felice Astolfi diede alle stampe nel 1611 – nota al pubblico colto e conoscitore della tradizione classica – dove Ipparchia è indicata come autrice di tragedie[66]. E in effetti appare evidente come, in questa tela, il pittore intenda presentare la maronita non solo come filosofa, ma anche come compositrice di tragedie e poetessa ispirata, nell’atto di sollevare la piuma dal calamaio e comporre versi. Pertanto è plausibile supporre che fu proprio il testo dell’Astolfi la base letteraria cui dovettero guardare l’artista e i suoi committenti, poiché la figura di Ipparchia di Maronea venne riletta, nella seconda metà del XVII secolo, dall’umanista napoletano Lorenzo Crasso. Nel 1678 questi pubblicò l’Istoria de’ poeti greci et di que’ che ’n greca lingua han poetato, in cui dava torto all’Astolfi – che invece aveva ben interpretato il testo del Laerzio – in merito all’attività poetica e drammaturgica che si riconosceva alla filosofa maronita. L’umanista partenopeo sosteneva che: «Questa, e altre lodi merita Ipparchia, ma l’Astolfi vuol, che ella sia stata Poetessa, e c’habbia composto Tragedie, però s’ingannò, secondo altri vuole, nella traduzion di Laerzio, che fù Crate il Componitor delle Tragedie, e non Ipparchia, seppur non vogliam dire, ch’ella come tanto dotta, e come Moglie, e Discepola d’un Filosofo, e Poeta, non sola nente habbia filosofato, ma ancora poetato»[67]

Lo studioso non solo non riconosceva alcuna attività letteraria a Ipparchia, ma attribuiva tutti i meriti al marito Cratete di Tebe, basandosi, probabilmente su un’errata lettura di Laerzio, il quale riferiva che sotto il nome del filosofo tebano fosse passata, anticamente, una raccolta di epistole da restituire, invece, alla moglie[68] versata nell’ars poetica. L’Ipparchia la cinica in veste di poetessa del Gennari è realizzata sulla base del testo dell’Astolfi e la sua datazione non può superare il 1678, quando il profilo della maronita fu riletto da Crasso che la voleva filosofa e non poetessa. L’iconografia, decisamente poco frequentata nelle botteghe artistiche moderne, è certamente da attribuire alla colta committenza di un fine collezionista, conoscitore della cultura classica e dei trattati filosofici redatti tra Cinque e Seicento.

Note

[1] J.A. Calvi, Notizie della vita, e delle opere del cavaliere Gioan Francesco Barbieri detto Il Guercino da Cento celebre pittore, Bologna 1808, pp. 55-56.

[2] G. Zanotti, Storia dell’Accademia Clementina, II, Bologna 1739, p. 169.

[3] G.N. Villa, Pitture della Città di Imola, Imola 1794, c. 316 A.

[4] G. Zanotti, Storia dell’Accademia cit., p. 169.

[5] G. Atti, Sunto storico della città di Cento da servire anche per guida al forestiero, Cento 1853, pp. 43-44; P. Bagni, Benedetto Gennari e la bottega del Guercino, Bologna 1986, p. 296, n. 9.

[6] G. Atti, Sunto storico cit., pp. 43-44.

[7] The collection of A.Taubman: old masters Sotheby’s New York, 27 gennaio 2016, n. 34.

[8] A. Masini, Bologna perlustrata, 1, Bologna 1666, p. 617.

[9] Bagni, Benedetto Gennari cit., p. 332.

[10] ibid.

[11] ibid.

[12] D. Mahon, Il Guercino. Disegni, Bologna 1969, pp. 225-226; Bagni, Benedetto Gennari cit., p. 196; B. Ghelfi, Il Libro dei conti e la bottega del Guercino tra Cento e Bologna, in Il Guercino. Opere da quadrerie e collezioni del Seicento, Bard 2019, pp. 59-67.

[13] È il caso, ad esempio, delle richieste non soddisfatte per Antonio Ruffo di Bagnara; V. Ruffo, Galleria Ruffo nel sec. XVII in Messina (con lettere di Pittori ed altri documenti inediti), in “Bollettino d’Arte”, III-IV, 1916, pp. 95-128. 

[14] Il libro dei conti del Guercino: 1629-1666, B. Ghelfi (a cura di), Milano 1997; Galerie Canesso, A rediscovered Sibyl by Guercino, Paris 2002.

[15] T. Mozzati, Le Sibille di casa Ratta: Domenichino, Grimaldi, Guercino, Canuti e Pasinelli nella quadreria di una famiglia bolognese, in “Nuovi Studi”, 14, 15, 2010, pp. 223-254.

[16] R. Morselli, Collezioni e quadrerie nella Bologna del Seicento. Inventari 1640-1707, Torino 1998, pp. 393-408; Mozzati, Le Sibille cit., pp. 223-254.

[17] G. Zanotti, Storia dell’Accademia cit., p. 169.

[18] C.C. Malvasia, Felsina Pittrice, II, Bologna 1678, p. 378.

[19] A. Arfelli, “Bologna perlustrata” di Antonio Masini e l’“Aggiunta” del 1690, in “L’Archiginnasio”, LII, 1957, pp. 188-237; L. Crespi, Felsina Pittrice, Bologna 1769, pp. 176-177.

[20] D. Benati, Il Guercino, Cento e la pittura di realtà, in Guercino, racconti di paese: il paesaggio e la scena popolare nei luoghi e nell’epoca di Giovanni Francesco Barbieri, catalogo della mostra a cura di M. Pulini, (Cento, Pinacoteca Civica, 24 marzo – 27 maggio 2001), Milano 2001, introduzione; B. Ghelfi, Il Libro dei conti e la bottega del Guercino tra Cento e Bologna, in Il Guercino. Opere da quadrerie e collezioni del Seicento, catalogo della mostra a cura di E. Rossoni, L. Berretti, (Bard, Forte di Bard, 5 aprile – 30 giugno 2019) Bard 2019, pp. 59-67.

[21] G. Zanotti Storia dell’Accademia cit., II, pp. 169, 350; Crespi, Felsina cit., pp. 176-177.

[22] D. Benati, Ritratto di Teresa Dondini Spada, in Tesori ritrovati: la pittura del Ducato estense nel collezionismo privato, catalogo della mostra a cura di Fondazione Collegio San Carlo (Modena, Chiesa di San Carlo, 24 ottobre 1998 – 10 gennaio 1999), Milano 1998, pp. 138-139; D. Benati, Cesare Gennari, in Da Ludovico Carracci a Ubaldo Gandolfi, a cura di P. Cantore, Modigliana 2017, pp. 68-69.

[23] B. Ghelfi, Il Libro dei conti cit., pp. 59-67.

[24] A. Cicatelli, Ritratto di Dorotea Fiorenza Saccenti, in Arte e pietà. Patrimoni culturali delle opere pie, catalogo della mostra a cura di Istituto per i beni culturali della regione Emilia-Romagna (Bologna, Museo Civico, Palazzo Pepoli Campograndre, Conservatorio del Baraccano, ottobre – novembre 1980), Bologna 1980, n. 250; N. Clerici Bagozzi, Cesare Gennari. Ritratto di Dorotea Fiorenza Saccenti, in Figure come il naturale: il ritratto a Bologna dai Carracci al Crespi, catalogo della mostra a cura di D. Benati (Dozza, Castello Malvezzi Campeggi, 23 settembre – 18 novembre 2001), Milano 2001, n. 33.

[25] B. Gennari, Lettera del 27 dicembre 1666 al conte di Novellara, in Gli artisti italiani e stranieri negli Stati estensi: catalogo storico, a cura di G. Campori, Modena 1855, p. 235.

[26] N. Roio, Cesare Gennari, in La scuola del Guercino, a cura di E. Negro, M. Pirondini, N. Roio, Modena 2004, p. 216.

[27] D. Benati, Cesare Gennari, in I dipinti antichi della Banca Popolare dell’Emilia, a cura di D. Benati, L. Peruzzi, Modena 1987, n.31; N. Clerici Bagozzi, Cesare Gennari. Ritratto di gentildonna con un bambino, in Figure come il naturale cit., n. 29.

[28] Ruffo, Galleria Ruffo cit., pp. 95-128.

[29] Dipinti antichi dal XV al XVIII secolo Gallerie Gilberto Algranti Bologna, 18 marzo 1989, n. 82; N. Clerici Bagozzi, Cesare Gennari, in “Dizionario Biografico degli italiani”, 53, 2000.

[30] Masini, in Arfelli, “Bologna perlustrata” cit., p. 213. Una datazione tra il 1668 e il 1669 è stata proposta da Bagni, Benedetto Gennari cit., p. 297, mentre è collocata tra il 1670 e il 1672 da Clerici Bagozzi, Cesare Gennari cit.

[31] Bagni, Benedetto Gennari cit., p. 298.

[32] Mozzati, Le Sibille di casa Ratta cit., pp. 223-254.

[33] Crespi, Felsina cit., p. 175.

[34] G. Campori, Raccolta di cataloghi ed inventari inediti di quadri, statue, disegni, bronzi, dorerie, smalti, medaglie, avorii, ecc: dal secolo XV al secolo XIX, Modena 1870, pp. 409-419.

[35] Ruffo, Galleria Ruffo cit., pp. 126 sgg.

[36] ibid.

[37] Opere dalla collezione Cavallini-Sgarbi: dipinti, disegni e sculture dal XV al XX secolo Finarte, Milano, 5 marzo 2008, n. 143.

[38] N. Clerici Bagozzi, Una traccia per Cesare Gennari, in “Paragone”, 36, 1985, pp. 243-248.

[39] B. Bisi, Lettera a Leopoldo de’Medici, Bologna, 22 gennaio 1658, ASFi, CdA, III, c. 493; A. Ghirardi, Women Artists of Bologna. The self-Portrait and the legend from Caterina Vigri to Anna Morandi Manzolini (1413-1774), in Lavinia Fontana of Bologna 1552-1614, catalogo della mostra a cura di V. Fortunati (Washington, The National Museum of Women in the Arts, 5 febbraio -7 giugno 1998), Milano 1998, pp. 37-38.

[40] B. Bohn, The construction of artistc reputation in Seicento Bologna: Guido Reni and the Sirani, in “Renaissance Studies”, 25, 4, 2011, p. 529.

[41] D. Feriani, La Giustizia, la Prudenza e la Carità, in Elisabetta Sirani “pittrice eroina” 1638-1665, catalogo della mostra a cura di J. Bentini, V. Fortunati (Bologna, Museo Civico Archeologico, 4 dicembre 2004 – 27 febbraio 2005), Bologna 2004, n. 85.

[42] Malvasia, Felsina cit., p. 475.

[43] E. Fumagalli, Collezionismo mediceo da Cosimo II a Cosimo III: lo stato degli studi e le ricerche in corso, in Geografia del collezionismo: Italia e Francia tra il XVI e il XVIII secolo: atti delle giornate di studio dedicate a Giuliano Briganti: Roma, 19-21 settembre 1996, a cura di O. Bonfait, M. Hochmann, L. Spezzaferro, B. Toscano, Roma 2001, p. 253.

[44] E. Fumagalli, Collezionismo mediceo cit., p. 254.

[45] ibid.

[46] A. Ranuzzi, Lettera a Leopoldo de’Medici, Bologna, 6 gennaio 1674, ASFi, CdA, XIV, cc. 530-545, n. 32; Archivio del collezionismo mediceo. Il cardinal Leopoldo, a cura di M. Fileti Mazza, 2, Milano Napoli 1993, pp. 557-558.

[47] Archivio del collezionismo mediceo cit., p. 968.

[48] E. Borea, Pittori bolognesi del Seicento nelle gallerie di Firenze, Firenze 1975, pp. 208-209.

[49] Clerici Bagozzi, Una traccia cit., pp. 243-248; Bagni, Benedetto Gennari cit., 1986, p. 298.

[50] Clerici Bagozzi, Una traccia cit., pp. 243-248.

[51] V. Fortunati, Frammenti di un dialogo nel tempo: Elisabetta Sirani e le donne artiste, in Elisabetta Sirani cit., pp. 19-39.

[52] Clerici Bagozzi, Una traccia cit., pp. 243-248.

[53] Old Master and British Paintings Sotheby’s, Londra, 27 ottobre 2011, n. 57.

[54] A. Modesti, Alcune riflessioni sulle opere grafiche della pittrice Elisabetta Sirani nelle raccolte dell’Archiginnasio, in “L’Archiginnasio”, XCVI, 2001, pp. 151-215.

[55] Si ringrazia la dott.ssa Vittoria Vairo (Università di Napoli) per l’analisi filologica condotta sul testo in grafia greca.

[56] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, a cura di M. Gigante, Bari 1976, vv. 96-98.

[57] ibid.

[58] A. Paradiso, Ipparchia cinica, la trasgressione come sillogismo, in Donne che contano nella storia greca, a cura di U. Bultrighini, E. Dimauro, Lanciano 2014, pp. 837-864.

[59] Diogene Laerzio, Vite cit., VII, 98.

[60] Paradiso, Ipparchia cit., pp. 849-851.

[61] Si ringrazia la dott.ssa Vittoria Vairo (Università di Napoli) per l’analisi filologica condotta sul testo in grafia greca.

[62] I filosofi antichi nell’arte italiana del Seicento. Stile, iconografia, contesti, a cura di S. Albl, F. Lofano, Roma 2017.

[63] Paradiso, Ipparchia cit., pp. 837-864.

[64] Paradiso, Ipparchia cit., pp. 852-853.

[65] ibid.

[66] G.F. Astolfi, Delle vite de’ filosofi di Diogene Laertio, Libri dieci, Venezia 1611, n. 36.

[67] L. Crasso, Istoria de’ poeti greci et di que’ che’n greca lingua han poetato, Napoli 1678, p. 296.

[68] Diogene Laerzio, Vite cit., VII, 98.

Pubblicato su “MuseoinVita” | 9-10 | 2019